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 2017  dicembre 07 Giovedì calendario

Geoff Dyer: Scrivere è l’unica forma di jazz

ROMA Per tutti Geoff Dyer è l’uomo che raccontava il jazz. Il cantore dei grandi maestri, da Lester Young a Chet Baker, ritratti nel libro-Bibbia per appassionati Natura morta con custodia di sax.
Ma, oltre un quarto di secolo dopo, lo scenario è cambiato: «La magia alla Charlie Parker è svanita – spiega – questo genere ormai è morto e sepolto.
Soffocato dal manierismo in cui si è rifugiato e dall’età avanzata degli ultimi esecutori». Però – aggiunge – non abbattiamoci troppo: il cuore della musica batte ancora forte. Solo che per riuscire ad ascoltarlo bisogna uscire dalle consuetudini, visitare luoghi remoti come l’India o l’Australia, viaggiare con sguardo attento e mente aperta. Facendosi guidare dall’istinto, dalla curiosità, dal piacere estetico.
Suggestioni che Dyer – inglese trapiantato a Los Angeles, 59 anni, scrittore flâneur per vocazione e stile – affida a una chiacchierata romana di fine autunno, nel salottino di un hotel del centro. Aria rilassata, volto sorridente, è in Italia per presentare i due volumi pubblicati recentemente dal Saggiatore: Sabbie bianche (pagg. 217, euro 20), reportage letterario da vari posti del mondo, e il romanzo del 1989 Il colore della memoria (pagg. 268, euro 21), affresco sulla meglio gioventù britannica condito da proclami d’amore per Gustav Mahler e Shostakovich, John Coltrane e Sonny Rollins.
Geoff, ciascuno di questi libri rivela una sua grande passione: il viaggio da un lato, la musica dall’altro. Esiste una connessione profonda tra i due universi?
«Assolutamente sì. Chiariamo un punto: viaggiare, cioè spostarmi da un luogo all’altro, non mi piace. Quello che amo, una volta arrivato, è visitare, scoprire posti che non immaginavo. Quanto alla connessione con la musica, ovviamente non è nella forma, ma nel tipo di emozione che le due esperienze riescono a regalarti. La capacità di entrambe di farti immergere completamente in qualcosa, escludendo qualsiasi altra sensazione o pensiero. Una concentrazione totale, estatica».
Questa è l’affinità filosofica.
Sul piano concreto, le capita di visitare luoghi lontani proprio per scoprire sonorità e generi musicali diversi?
«Negli ultimi tre decenni ho viaggiato ai quattro angoli del globo proprio alla ricerca di quella che potrei definire la musica del mondo. Le faccio un esempio: molti anni fa sono partito per l’India spinto solo dal desiderio di ascoltare a approfondire la musica classica indiana. E poi, sbarcando lì, ho scoperto un luogo meraviglioso. Spesso quando parliamo di musica indiana pensiamo ad artisti tipo Ravi Shankar, ma l’universo di sonorità di quel grande paese è molto più antico e complesso. Consiglio a tutti di scoprirlo».
Ricevuto. Tornando al binomio musica-viaggio, un’altra connessione potrebbe essere racchiusa in una parola: bellezza.
«È vero. Credo che per capire di cosa stiamo parlando basta andarsi a rivedere La grande bellezza, il film del vostro Paolo Sorrentino. Anche in questo caso, parliamo di qualcosa di impalpabile che ti cattura, ti assorbe completamente».
A proposito di musica, com’è nata la sua love story con il jazz, riversata in parte nel “Colore della memoria” e a dosi massicce in “Natura morta con custodia di sax”?
«Sono stato sempre un appassionato di jazz, e il mio grande cruccio era non aver mai sentito suonare i grandi personaggi della sua età dell’oro. Per questo ho deciso di documentarmi, di fare un viaggio nelle loro vite sofferte, nei loro mondi. Attratto, in particolare, da una contraddizione: da un lato erano cittadini neri, e per questo considerati di serie b; dall’altro artisti dall’enorme talento, celebrati soprattutto in Europa. Adorati sì, ma senza quella irraggiungibilità delle star stile Mick Jagger o Madonna: se li vedevi esibirsi potevi interagire con loro».
Erano quasi tutti uomini perduti: nella droga, nel dolore. Eppure la loro musica sembra più forte dei loro demoni: quasi un miracolo…
«In effetti lo è. E appartiene alla qualità mitica che quel jazz possedeva: una sorta di mistero permanente, un qualcosa che per chi suona e chi ascolta è molto personale, ma nello stesso tempo ha echi cosmici. Un doppio registro che si riscontra anche sul piano strettamente musicale, nel mix di composizione e improvvisazione».
Oggi però il jazz è marginale.
«Perché è vecchio. I pochi musicisti che ancora compongono e suonano sono anziani. Basta andare in un club di New York per verificarlo. E poi non si è rinnovato, è diventato puro manierismo: tutti quegli attacchi di pezzo basso e batteria (qui imita il ritmo con la voce, ndr), che noia sentirli per la milionesima volta! Per questo a metà anni Novanta mi sono detto: basta, ho chiuso.
Naturalmente resta la qualità del periodo ruggente. Eternamente giovane, come la musica classica: Bach o Beethoven non invecchiano mai».
Altri amori musicali?
«Quando ho mollato il jazz americano, a metà anni Novanta, c’è stato un momento in cui mi sono appassionato alla scena dance ed elettronica che allora era al suo meglio: l’energia che la percorreva, così come la connessione tra musica e droghe, mi ricordava i tempi di Charlie Parker e degli altri grandi. Anche la discomusic era all’insegna delle droghe, ma musicalmente assai meno creativa».
E oggi cosa resta?
«L’hip hop non mi piace, è ripetitivo e ha testi demenziali: i rapper non sono affatto gli eredi della black music nata dal jazz e dal blues. Ora le novità musicali vanno cercate altrove. Un esempio fra i tanti? The Necks, un trio australiano con un uso della testiere davvero interessante. A dimostrazione che il mondo è grande. E la musica è ancora più grande».