La Stampa, 6 dicembre 2017
Così i tratti del viso condizionano ogni decisione
Quante volte abbiamo pensato, magari vergognandoci, «quello è proprio un brutto ceffo» e, anche, «la prima impressione non inganna mai». Luoghi comuni, certo, ma che racchiudono alcune verità che vanno oltre la tentazione di leggere nei segnali esteriori di un volto le tracce di un temperamento, oltre che di intenzioni e pensieri.
Messo da parte il nesso, ricercato da Cesare Lombroso, tra tratti somatici e condotta criminale e il proverbiale «bernoccolo» del talento dei frenologi, oggi le neuroscienze studiano la nostra tendenza innata a fare affidamento, per quanto inconsapevolmente, su menti, zigomi, nasi e labbra.
Le ricadute sono concrete. Molte ricerche hanno dimostrato, per esempio, che la bellezza garantisce salari più elevati e agli imputati giudizi più clementi. Tanto che Deborah Rhode, docente di legge alla Stanford University, ha coniato il termine «ingiustizia dell’apparenza» per indicare quel surplus di stipendio, favori e fortuna che spettano a un bel viso e a un bel fisico. I volti, d’altra parte, sono diventati protagonisti assoluti nella lotta al terrorismo attraverso i sistemi di riconoscimento facciale e continuano a farla da padrone nella nostra quotidianità: dai modi di dire, «quando ci mettiamo la faccia» o ci teniamo tantissimo a «non perdere la faccia», fino agli insulti, con un’infinita serie di «faccia di...».
A raccontare «il ruolo e il peso che ha il look nella faccende umane e in particolare in quelle giudiziarie» è «Il volto nell’investigazione e nel processo», il saggio di Guglielmo Gulotta e Ersilia Mara Tuosto per Giuffrè editore, nella collana di psicologia giuridica e criminale. L’importanza-chiave dei volti, d’altra parte, non sorprende. Individuarli e riconoscerli è una capacità che possediamo alla nascita, senza alcuna esperienza del mondo e quando il cervello non è ancora pienamente sviluppato. Ma, se i processi con cui elaboriamo i volti sono automatici e inconsci, non sempre il volto ci condanna. E meno male, perché – come osserva Gulotta – «chi di noi può dire di avere una faccia al di sopra di ogni sospetto?».