la Repubblica, 6 dicembre 2017
Spiando nella posta di Virginia Woolf
La domanda è solo apparentemente ingenua, in realtà insidiosa: Virginia Woolf è più grande come scrittrice di romanzi o di saggi? Come romanziere o come critico? Dando per scontata la sua eccellenza in campo letterario, che dire del modo sublime in cui pratica l’arte delle recensioni? E la forma del saggio? E, di fronte all’epistolario, come sottrarsi all’incanto del suo stile, come non lasciarsi contagiare dal fervore con cui si dedica alla confezione di migliaia e migliaia di lettere? Nel genere senz’altro fin da giovanissima manifesta un’assoluta maestria, esibisce una finezza, palesa una raffinatezza, che da subito fanno presagire un’eminenza. Lo riconoscono gli amici, che la paragonano a Madame de Sévigné. Con malcelata diffidenza Virginia scherza: dicono così – che vincerò la palma dell’immortalità come scrittrice di lettere – perché non vogliono riconoscermi come il grande scrittore che se non sono, diventerò; perché vogliono “diminuirmi”. Rimane tuttavia la sua ammirazione per la dama francese che per lettera dà prova di una verve linguistica e una libertà espressiva straordinarie.
Doti che all’epoca in cui Madame de Sévigné vive, e cioè nel Seicento, in Francia, e se per quello anche in Inghilterra, una donna poteva assecondare soltanto grazie a quella particolare forma di scrittura privata che è la scrittura epistolare. La giovane Virginia dimostra un enorme interesse per la paradossale intimità cui la lettera si presta. E già nelle prime missive si interroga su quale sia l’essenza propria della comunicazione epistolare.
Non è ancora Virginia Woolf a scrivere: è Virginia Stephen. Porta ancora il nome del padre, che cambierà con quello del marito Leonard Woolf nel 1912: quando diventerà Virginia Woolf, ovvero la donna del Lupo. O Virginia Lupo, come con vezzo paronomastico si definirà giocando con il cognome acquisito. Del resto, nella vita e per lettera gioca sempre coi nomi propri, li storpia, li deforma e li trasforma, ne inventa di nuovi per sé, i fratelli, la sorella, gli amici. In un sabba lussureggiante di epiteti e nomignoli i fratelli e le sorelle Stephen si prendono in giro e si coccolano. L’eccentricità di Virginia da piccola si fissa nel soprannome “the Goat”: è una “capra”. Scontrosa, imprevedibile, capricciosa, testarda. Comunque, strana. Ma se nel nome inventato si sigilla il carattere di chi lo porta, e chi lo porta se ne appropria e a esso si intona, nell’epiteto possiamo anche cogliere l’allusione alla capacità di fatica, allo spirito di adattamento. (E di fatica e spirito di adattamento in effetti Virginia nel corso della sua vita darà ampiamente prova.) Ma non è la capra il solo animale che usi come veicolo. Va anzi subito detto che gli animali funzioneranno sempre nella sua scrittura allo stesso modo che nella religione indù, e cioè come vahana, ovvero come cavalcature su cui procedono le qualità essenziali se non della divinità, del soggetto. Così Virginia appronta un popoloso repertoire di caratteri bestiali con cui si presenta nelle differenti relazioni. Con Violet Dickinson è “Sparroy”, e cioè un passerotto, o “Wallaby”, una specie di piccolo canguro. Sarà un mandrillo o una marmosetta per Leonard. Comunque e come che sia, tutti quelli che ama ribattezza con un nuovo nome, non solo di animale: Vanessa è a volte Maria, o la Fulva, più spesso la Marmotta, o il Delfino. Thoby è “Gribbs” o “Grim” o “Cresty” o “Thobs” – secondo un gioco verbale che si articola lungo l’asse del suono. La sorellastra di Virginia per parte materna, Stella, è la “cara vecchia Mucca”, secondo un appellativo che è stata la madre Julia ad affibbiarle. Per partenogenesi i soprannomi a loro volta gemmano in altri appellativi ancora, così “the Goat” prende un accento latino con “Goatus”, o italiano con “Capra”; mentre “the Toad”, il rospo, rivolto a Emma Vaughan, degenera nel più crudo “reptile”.
Nomignoli, giochi di parole, scherzi verbali, doppi sensi, parodie, caricature portano acqua al mulino della risata. E servono a scaricare nella lingua un’energia emotiva anche dolorosa, che partorisce un mondo gravido di affetti ambivalenti. Anche di questo lavoro della lingua le lettere sono la palestra.