la Repubblica, 6 dicembre 2017
Rogo alla Thyssen, dopo la condanna i manager tedeschi ancora in azienda
Berlino Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz non soltanto lavorano ancora per Thyssenkrupp, nell’importante complesso industriale di Duisburg, ma secondo una fonte sarebbero persino impiegati nello stesso settore in cui si sono resi colpevoli della morte di sette operai in Italia: l’acciaio. Il gruppo non avrebbe ritenuto neanche di dover sanzionare i due manager condannati dalla giustizia italiana a nove anni e 10 mesi e sei anni e 9 mesi per il rogo nello stabilimento torinese, licenziandoli. Anzi, in attesa dell’arresto, il colosso tedesco starebbe garantendo loro uno stipendio. Non si sa se ci sia stato un demansionamento rispetto al ruolo che ricoprivano in Italia, ma certo non fanno gli uscieri.
Inoltre, dal 13 maggio 2016, da quel verdetto definitivo della Cassazione che ha ritenuto i vertici della Thyssen di Torino, compresi i due manager tedeschi, colpevoli di omicidio colposo, la giustizia della Germania sembra aver assunto tempi lunghi – italiani, verrebbe da dire – per l’esecuzione. Dopo che è stato rimosso anche l’ultimo ostacolo formale, nei mesi scorsi, sono aumentate enormemente le pressioni della diplomazia italiana e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma le autorità tedesche se la stanno prendendo comoda per far arrestare Espenhahn e Priegnitz. E, come confermano informalmente dal ministero della Giustizia italiano, in teoria non c’è più alcun ostacolo all’arresto.
Un mese fa Orlando ha scritto al suo omologo, Heiko Maas, per avere lumi sul destino dei due top manager, ma non ha mai ricevuto risposta. Dal ministero della Giustizia tedesco un portavoce fa notare che la decisione spetta ai magistrati e che la materia è di esclusiva competenza dei Land. Quando è arrivata la lettera di Orlando, Maas si è limitato dunque, racconta il portavoce, «a chiedere al responsabile della Giustizia del Nordreno- Westfalia se può aiutarlo a facilitare una buona comunicazione con l’Italia». Ma non ha ritenuto di dover rispondere a Orlando. E la linea ufficiale resta che «su questo caso non diciamo nulla».
Da quando il ministro italiano ha bussato a Maas, si è mossa anche la diplomazia. L’ambasciatore Pietro Benassi, sempre vigile anche nel lungo anno in cui nessuno ha reso esecutiva la sentenza della Cassazione perché mancava sempre qualche formalità, ha incontrato di recente la sottosegretaria alla Giustizia, Christine Wirtz.
Oggi il console di Colonia incontrerà di nuovo qualcuno del ministero della Giustizia per continuare a esercitare pressioni su un sistema che su questo punto sta facendo evidentemente muro. O “sistema”, appunto, per usare un termine molto in voga tra gli estimatori del capitalismo corporativo tedesco, noto per la capacità di serrare i ranghi nei periodo di crisi e tutelare spesso i lavoratori meglio di altri Paesi. Salvo poi chiudersi a testuggine quando qualcuno osa chiedere giustizia per un fatto clamoroso e tragico come il rogo di Torino, che continua a rubare il sonno alle famiglie italiane.
Ieri Thyssen ha fatto sapere, via mail, di «essere dispiaciuta che in uno stabilimento si sia potuta verificare una tragedia del genere» e ha espresso la propria vicinanza alle famiglie delle vittime. «Faremo di tutto per evitare tragedie del genere in futuro», hanno scritto. Già, ma i responsabili ancora lavorano lì. Come si conciliano le due cose?