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 2017  dicembre 06 Mercoledì calendario

Scozia, Galles e anche Londra ora vogliono un piede nella Ue

LONDRA Alla fine restano solo gli inglesi provincia a volere davvero la Brexit dura e pura. La rivelazione che il governo britannico era pronto a concedere all’Irlanda del Nord un “allineamento normativo” con l’Irlanda, e dunque con l’Unione Europea, spinge le altre “nazioni” del Regno Unito a pretendere lo stesso trattamento, in virtù del quale resterebbero di fatto dentro il mercato comune. Lo chiedono la Scozia e il Galles. Lo chiede Sadiq Khan, sindaco di Londra: come se l’M25, la tangenziale lunga 270 chilometri che circonda la capitale, delimitasse una regione a parte, separata dal resto dell’Inghilterra. Se la soluzione architettata da Theresa May va bene per i nord- irlandesi, dicono gli altri, perché non può andare bene anche per loro? Dopotutto, la Scozia e Londra, come l’Irlanda del Nord, nel referendum di un anno e mezzo fa hanno votato per rimanere in Europa. Il Galles ha votato per uscirne, ma adesso il suo governo autonomo ammette che è stato un errore, considerata l’entità degli aiuti che la parte più povera della Gran Bretagna riceve da Bruxelles: quindi un piede in Europa vogliono tenercelo pure i gallesi.
La concessione sull’Irlanda del Nord, naturalmente, non è passata: all’ultimo momento, quando già si preparava lo champagne per brindare all’accordo sulla Brexit, la premier britannica l’ha dovuta ritirare. Una telefonata da Belfast l’ha avvertita che il Dup, piccolo partito unionista i cui 10 deputati permettono ai conservatori di governare anche se alle elezioni del giugno scorso hanno perso la maggioranza assoluta, non l’accettano. Il motivo è chiaro: uno status speciale per l’Irlanda del Nord, che la distingua dalla Gran Bretagna uniformandola alla repubblica irlandese, è l’anticamera della riunificazione con Dublino. May si dice sicura di persuadere gli unionisti entro il summit Ue della settimana prossima, che dovrebbe certificare l’intesa sul “divorzio” e autorizzare l’avvio del negoziato sui futuri rapporti fra il Regno Unito e i 27 Paesi dell’Unione. Ieri, tuttavia, Arlene Specter, la leader del Dup, si è perfino rifiutata di incontrarla, furiosa perché il compromesso escogitato da Downing Street le è stato presentato soltanto lunedì mattina, poche ore prima che May incontrasse il presidente della Commissione europea Juncker a Bruxelles con l’intenzione di firmarlo.
Il governo sostiene che il Dup ha “frainteso”: il ministro per la Brexit David Davis afferma che “l’allineamento” delle norme non equivale a restare nella Ue e comunque varrebbe per tutta la Gran Bretagna. Ma il Dup non ci crede. E l’opposizione laburista, da sempre schierata per una Brexit “morbida”, ora praticamente non la vuole più: «Il governo deve riconsiderare e proporre che il nostro Paese resti nel mercato comune». Come la Norvegia, per intendersi: con totale libertà di movimento, ossia di immigrazione. Morale: Theresa May è in un vicolo cieco. Se conferma l’offerta sull’Irlanda del Nord, fa l’accordo sulla Brexit ma cade il suo governo. Se cambia l’offerta per compiacere il Dup, salta l’accordo con la Ue. Non a caso, sentendo aria di disastro, la sterlina è calata. Al round finale di negoziato, insomma, emerge in tutta la sua assurdità il paradosso britannico. Se May fa una Brexit dura e pura, rischia la guerra civile in Irlanda del Nord, la secessione in Scozia, la fuga delle banche dalla City: in sostanza, la rovina. Se cerca di attenuare l’impatto della Brexit con compromessi come “l’allineamento normativo”, spinge tutti a chiedersi: ma cosa la facciamo a fare? Oltre a perdere il posto.