Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 04 Lunedì calendario

Brad Parscale, il guru social di Trump: «Così arriviamo a tutti gli americani»

N ella sala dedicata agli ospiti coperta di moquette scura, trecento metri quadrati alle spalle dell’Altice Arena, era difficile non notarlo. Alto due metri e sette centimetri, cranio rasato e lunga barba bionda come la portavano i Vichinghi, Brad Parscale sembrava contento di esser un pesce fuor d’acqua. Quei parlamentari europei e quei dirigenti di compagnie hi-tech dalle idee liberal, in gran numero al Web Summit, erano evidentemente di un’altra razza. Anzi: di un altro pianeta. Classe 1976, Parscale è la mente del “progetto Alamo”, il gruppo che ha operato per conto di Donald Trump sulla Rete durante le elezioni presidenziali statunitensi. Lancia strali su Twitter come il suo capo, anche se per ora è scivolato al massimo in qualche retweet di troll russi. Nulla al confronto dell’incidente diplomatico scatenato dal Presidente Usa con l’Inghilterra, rilanciando un messaggio anti islamico di un gruppo di estrema destra inglese. Ma Parscale in realtà è un asso di Facebook, colui che durante le presidenziali è andato «a cercare gli elettori uno ad uno grazie ai social», come spiega lui stesso.
«Mentre gli altri pensavano solo a giornali e tv, noi usavamo Facebook per raggiungere persone alle quali non potrai mai arrivare con uno spot televisivo. Quindici in Florida, venti in California, altri trenta in Alaska... Abbiamo colto ogni opportunità». Tutto grazie ad una produzione fra i 60mila e i 100mila messaggi personalizzati al giorno diretti ai vari gruppi di elettori attraverso i social network, battendo sui temi (locali) ai quali tenevano. Lo accusano di aver cavalcato le fake news, di aver collaborato con i troll russi e di aver profilato gli elettori in barba alla privacy. Lui sfoggia noncuranza. Quando lo abbiamo incontrato stava dando consigli ad un ventenne in adorazione che voleva sapere come gestire al meglio la sua startup. Parscale, nato e cresciuto a Topeka, Kansas, ha fatto fortuna e l’ha fatta molto rapidamente. La sua azienda di marketing Giles-Parscale di San Antonio, Texas, è in contatto con la Trump Organization dal 2011 ma per lavori minori. Fino alle presidenziali. Alcune testate come Washington Post e San Antonio Express-News, sostengono che nelle sue tasche, ad elezioni concluse, siano entrati 94 milioni di dollari. A quali si aggiungono altri nove milioni arrivati dalla vendita della Giles-Parscale alla CloudCommerce di Santa Barbara, che l’ha trasformata nella Parscale Digital. Lui ora siede nel consiglio di amministrazione della CloudCommerce e intanto ha avviato un’altra compagnia che si dedica solo alla politica. L’ha battezzata Parscale Strategy. Non male per un quarantenne che viene da una cittadina di 127 mila persone nel centro degli Stati Uniti. Il padre, assistente procuratore generale e poi imprenditore a Topeka, decise di trasferirsi in Texas dove Brad, grazie alla passione per i computer e una laurea in economia, si è subito messo a lavorare nel settore del marketing digitale. Quando Donald Trump lo arruolò nel 2015, per costruire e gestire il suo sito Web in vista delle elezioni, il contratto iniziale valeva mille e cinquecento dollari. Due anni dopo ad assistere alla sua conferenza al Web Summit, c’erano diecimila persone apertamente ostili eppure curiose di capire chi fosse davvero questo marziano alto due metri arrivato da quell’America profonda che ha dato una mano a mandare a monte i sogni di gloria di Hillary Clinton. La stessa America apparentemente così lontana dai colossi del Web californiani vicini ai democratici. Ma l’anello di congiunzione fra i due universi, strano a dirsi, è stato proprio Parscale. Quando ci siamo avvicinati per fargli due domande, ci ha guardato con sospetto. Come Trump, Parscale detesta i giornalisti che insulta con una certa frequenza su Twitter. Poi però qualcosa l’ha detta: «Facebook, Snapchat, Google, Twitter… Quando investi poco meno di 300 milioni di dollari dei quali 100 milioni solo su Facebook, molte persone vengono a bussare alla tua porta. Quelli (la Silicon Valley, ndr.) ti mandano i loro uomini migliori. Li abbiamo avuti al nostro fianco per rendere i messaggi più efficaci. Ci hanno spiegato quali strumenti usare per arrivare dove volevamo arrivare. Non capisco lo scandalo. Sono aziende private: spendi in pubblicità sulle loro piattaforme e ti forniscono supporto». Lo scandalo in realtà c’è stato. Mark Zuckerberg subito dopo le elezioni ha negato il peso della propaganda fatta anche di fake news, poi ha ammesso di aver preso una cantonata. Singolare che non lo avesse capito prima. La sua multinazionale ha incassato gli assegni di Parscale e mandato personale in un anonimo palazzo alla periferia di San Antonio, con affaccio su un’autostrada, per collaborare al Progetto Alamo. Allo staff di Parscale, che al tempo contava circa cento persone, si aggiunsero così gli ingegneri di Google, Facebook e YouTube. Oltre ad alcuni analisti della società inglese Cambridge Analytica. È l’azienda che ha creato lo strumento usato da Parscale per vivisezionare le abitudini di 230 milioni di americani chiamandolo appunto Alamo, che poi ha dato il nome all’intero gruppo. Si andava dall’analisi del voto alle precedenti elezioni fino al modello di macchina comprata o cosa si guarda sul Web. Costruivano così quelli che loro stessi chiamavano “universi”, gruppi di elettori con diversi punti in comune ai quali poi venivano inoltrati i diversi tipi di messaggi elettorali per la raccolta di fondi. «Senza Facebook, semplicemente non avremmo vinto», ha confessato Theresa Hong, braccio destro di Parscale, alla Bbc. «Abbiamo solo applicato gli strumenti del marketing», minimizza il gigante del Kansas nella sala ospiti dell’Altice Arena. «Nulla di più. Lo avrebbe potuto fare anche lo staff della Clinton». Già, perché i democratici non lo hanno fatto e perché non si sono accorti di quel che stava accadendo sui social network? A questa domanda avrebbe risposto quella stessa sera una ragazza incontrata per caso in un ristorante di Lisbona. Lavora nello studio legale di una nota azienda dello streaming. «Ai tempi mi sono fatta anche io la stessa domanda», ha detto. «Ma chi c’era sul fronte democratico? Poi l’ho scoperto: quando la Clinton perse, ci arrivarono molti curriculum da parte dei membri del suo entourage che avevano lavorato sul fronte digitale. Non ne abbiamo assunto nemmeno uno. Il loro profilo professionale era troppo scarso». Donald Trump Hillary Clinton MILIONI DI DOLLARI Budget assegnato da Trump a Parscale per i messaggi di propaganda elettorale sul web, usati investendo pesantemente su Google, Snapchat e Twitter Brad Parscale, il direttore delle comunicazioni via web e social di Donald Trump, considerato l’artefice della sua vittoria elettorale. “Il nostro lavoro dice – non è finito, e continuiamo a stare vicini a tutti gli americani comunicando loro i successi delle nostre politiche e ascoltando i loro commenti”