la Repubblica, 4 dicembre 2017
Intervista a Vikash Dhorasoo: «Il riscatto dei piedi e di chi arriva dalle periferie il calcio è di sinistra»
PARIGI Al solito spiazzante, Vikash Dhorasoo ha voluto ribaltare un luogo comune fin dal titolo del suo libro “Comme ses pieds” (Seuil), per ridare dignità all’arto che è stato strumento del suo lavoro. «In francese si dice di qualcuno che è coglione come i suoi piedi, o che si hanno due piedi sinistri.
Messi è esaltato perché “ha le mani al posto dei piedi”. I piedi sono un peggiorativo, sono sporchi, si cammina con i piedi...». Ma? «Ma non è un controsenso giocare coi piedi. La forza di gravità fa sempre cadere il pallone per terra. Tutti gli altri sport con una palla si praticano con le mani. La palla appartiene a chi la controlla, sta più vicina alla testa e si vede cosa succede.
Quando la hai tra i piedi è fuori dalla tua visione, non è mai completamente tua anche se sei Messi. Rotola, e ciascuno ha il diritto di andare a prendersela. È di tutti, e io sono contro la proprietà privata...».
Esordio a Le Havre, dove è cresciuto nel quartiere multietnico di Caucriauville, campione nel Lione, nel Milan e nella nazionale francese, Dhorasoo, oggi 44 anni, è uno dei personaggi più eterodossi che hanno attraversato il pianeta calcio. Mauriziano d’origine, figlio di operaio, esplicitamente di sinistra, intellettuale, regista di un film su se stesso e i suoi compagni al Mondiale 2006 perché essendo riserva si annoiava, poi giocatore professionista di poker per «ritrovare il senso della competizione», carriera presto abbandonata quando ha capito che «le carte servono solo a due cose, gonfiare o svuotare il conto in banca». Ora, un’associazione creata con amici per «pensare un nuovo calcio e ridare il gioco ai ragazzi» e il libro, narrazione della sua vita sinora, accompagnata da riflessioni politico-filosofiche, dove ogni capitolo comincia con la scena del maggio 1998, 88° minuto di Le Havre-Marsiglia, quando viene sostituito per ricevere l’applauso del pubblico prima di trasferirsi al Lione. Fine dell’età dell’innocenza, immersione nel calcio-business.
Dhorasoo, eravamo ai piedi...
«Molti dicono che il football è popolare perché c’è bisogno solo di un pallone. No, lo è perché si gioca coi piedi. Ed essendo imprevedibile scatena la fantasia.
Magari non succede nulla in 90 minuti e li si riempie col racconto.
Nel calcio si può rifiutare il possesso, tirare in tribuna sempre, non attaccare mai. Negli altri sport lo impediscono le regole».
Ma il calcio ha tattica, strategia, ci si muove in campo con regole persino militari.
«Negli altri sport vince sempre il migliore. In un Germania-Algeria di basket, l’Algeria viene invasa.Nel calcio può capitare che vinca.
La Francia ha pareggiato col Lussemburgo. Nel calcio puoi conquistare un Mondiale facendo sempre 0-0 e poi segnare i calci di rigore».
Perché ha cominciato a giocare a pallone?
«Da piccolo ho chiesto a un compagno: perché ti vedo così contento? Mi ha risposto: perché ho giocato a calcio. Volevo essere contento come lui, e assieme ad altri ragazzi».
Il calcio è anche un’industria.
«È il riflesso della società che chiede di essere efficienti, produttivi. Ora non si contano più solo i gol, ma i passaggi che fai, i chilometri che percorri. Cifre, come in finanza».
E il coté romantico?
«Per me da un certo punto in poi è stato un lavoro. Giocavo perché mi pagavano. Altrimenti non l’avrei fatto. Troppo duro, ad alti livelli. Sono stato operato a 16 e a 17 anni, sono sempre sceso in campo col dolore. Gratis, non era il caso.
Gratis si fa solo con gli amici. Ho accettato le regole, volevo dimostrare di essere il migliore, ero in collera quando mi facevano sedere in panchina».
Qual era il momento più bello?
«Il corridoio dello stadio, prima di entrare in campo. Si guardano gli avversari, ci si guarda tra di noi, l’arbitro controlla i tacchetti, tutto è ancora possibile. Poi esci e i fari sono puntati su di te, finalmente puoi correre sul prato e tornare bambino».
Il gigantismo finanziario del calcio è lontano dalle sue idee.
«Una contraddizione di cui sono pienamente cosciente. Era il mio lavoro, ero pronto a tutto. Anche perché, se l’ambiente è di destra, il calcio in sé è di sinistra. È di sinistra passare la palla all’altro. O passi o tiri, non ci sono molte soluzioni. E se tiri c’è qualcuno che ti ha dato la palla».
Si guadagnano cifre folli che aumentano le differenze sociali.
«Tuttavia siamo dei salariati. Pagati da gente che ha potere mentre noi non siamo niente.
Ibrahimovic può prendere anche 20 milioni al mese ma non è nessuno. Quando giocavo credevo di essere importante. Ho capito a fine carriera. Volevo acquistare il mio primo club, il Le Havre, e mi hanno riso in faccia. Quelli che contano sono i signori incravattati, i notabili che stanno su in tribuna. Loro muovono i fili.
Noi atleti siamo di passaggio».
Ha smesso quando a Grenoble, a pranzo col suo nuovo allenatore Mehmet Bazdarevic, lui ha ordinato pesce e broccoli, e lei voleva pietanze meno sane.
«Era il segno, non ero più disposto ai sacrifici, non avevo più la forza di fare ciò che serve per stare a certi livelli. Volevo ritrovare la mia libertà. È stato un momento di sincerità con me stesso».
Ha sempre odiato la panchina, però al Milan ha accettato di essere riserva.
«C’era Pirlo, c’era Seedorf. Io avrei voluto giocare anche lì ma non potevo dirlo».
Tutti i calciatori pensano di essere il migliore?
«Lo spero per loro. Io non ho mai voluto essere il migliore perché altrimenti sarebbe stato frustrante, ce n’erano altri più forti di me. Però ho sempre pensato di essere il migliore, altrimenti non sarei mai potuto entrare nello spogliatoio del Milan, a quei tempi la squadra più forte del mondo. Zidane è forte?
Sì, ma se gioco con lui significa che posso essere al suo livello.
Altrimenti lo guardo e gli faccio una foto ricordo».
Nel libro scrive che non era contento del ritorno di Zidane in nazionale perché le toglieva il posto.
«Semplificato così, suona aggressivo. Da tifoso della Francia sarei stato contento del ritorno di Zidane. Da giocatore della Francia no, perché se c’è lui io esco. Non è come in altri mestieri dove c’è tempo per proporsi di superare chi ti sta avanti. Avevo 33 anni, era la mia ultima occasione in un Mondiale».
Scrive pure che quando si diventa professionisti non si ha il diritto di perdere. Che significa?
«A Le Havre perdere era normale, se vincevamo eravamo contenti. A Lione era l’opposto. Si vinceva spesso e perdere era vietato, era drammatico. Se perdi fuggono gli sponsor, non vai in Champions League, non puoi fare il tuo mestiere, non ti possono pagare. E se succede per tre anni di fila chiudono a chiave la porta».
Cosa cambia nella testa?
«Ti abitui a un nuovo parametro. È come nelle aziende dove se realizzi un progetto hai un premio».
È partito svantaggiato, famiglia umile, periferia. Si ritiene fortunato?
«No, ho lavorato molto per arrivare da Caucriauville allo stadio di Berlino. Non lo rifarei perché è stato talmente bello e duro che quando finisce è complicato. E poi per me è finita male, licenziato dal Paris Saint Germain! Vieira ha detto che pagherebbe per giocare dieci minuti come quando era al suo massimo. Anche io. Però sono contento della mia vita attuale.
Parlo di calcio, scrivo di calcio, difendo l’idea che i calciatori, considerati degli stupidi, sono invece forti, intelligenti, capaci.
Vengono denigrati perché c’è un pregiudizio. Sono quasi tutti ragazzi di periferia che diventano ricchi. Ma senza salire mai la scala sociale. Se vieni dai quartieri poveri non sposerai mai una borghese di Parigi. I soldi, la celebrità possono rompere talvolta le barriere. Ma la Francia, in generale, non propone questo.
È un Paese di successione ereditaria dove le classi alte si proteggono come ai tempi dei re e delle caste».
È anche il Paese dei diritti.
«C’è un’oligarchia spacciata per democrazia. Macron è un’espressione del mondo dei padroni, del Cac 40 (l’indice di Borsa, ndr). Così è ridotta la politica. Per quanto mi riguarda, se vince la destra è contento il mio portafoglio, se vince la sinistra vincono i miei principi. Non perdo mai».
Dice di votare a sinistra perché è un utopista.
«Essere utopisti significa essere realisti. Perché le cose che fai per raggiungere l’utopia sono concrete. Posso essere contro la guerra e quello è l’obiettivo, ma magari per raggiungerlo bisogna farla una guerra. Il vero peccato è che la sinistra oggi non fa più sognare».
Con queste idee non era a disagio nel Milan di Berlusconi?
«Appena imparato l’italiano ho cominciato a comprare Repubblica. Nello, il fisioterapista, che mi voleva bene, mi ha avvertito: guarda che qui è la destra, fai attenzione perché quello ti schiaccia (“ti schiaccia”, lo dice in italiano, ndr). Così prendevo il giornale e lo leggevo in camera, la numero 10 di Milanello. Forse non sono stato coraggioso come sarebbe stato necessario, ma nella stanza consumavo la mia forma di resistenza. Quanto a Berlusconi una volta, dopo una buona partita, mi chiamò “grande campione”. Mi sentivo fiero che riconoscesse il lavoro ben fatto. Sapeva incantare, raccontava barzellette, capisco che si possa essere sedotti da un uomo così. Non io. Sono saldo nei miei valori e nelle mie convinzioni».