la Repubblica, 5 dicembre 2017
«Non amateci solo perché siamo neri». L’intervista a Paul Beatty
NEW YORK Non mi sento un portavoce dell’America nera – spiega Paul Beatty – ma spero che questo nuovo interesse per gli scrittori afroamericani non sia dovuto solo al politicamente corretto». A poco più di un anno dalla vittoria del National Book Award e del Man Booker Prize con Lo schiavista, Beatty arriva in Italia per partecipare alla fiera romana “Più libri più liberi”.
Proprio mentre l’editore Fazi pubblica il suo romanzo d’esordio, Il blues del ragazzo bianco, che dieci anni fa ne rivelò il talento e l’originalità dello sguardo.
Il libro racconta la vicenda di un uomo chiamato Gunnar Kaufman: è, per usare le sue parole, l’ultimo discendente di una dinastia di «devoti leccaculo servi dei bianchi», che si lascia vivere a Santa Monica fin quando si trova ad affrontare traumaticamente il ghetto nero di Hillside: in una escalation inaspettata quanto irresistibile, diventa il guru di una comunità che teorizza il suicidio di massa.
È una storia che porta con sé il rischio della metafora e del messaggio impegnato, ma nella penna dell’autore il tono rimane sempre ironico: «Quando il libro venne pubblicato fui il primo ad essere sorpreso dal successo – racconta dal suo appartamento californiano, in una pausa dalle lezioni alla Columbia University – e poi domandavo a me stesso: come ti è venuta in mente una idea così strana?».
Posso chiederlo anch’io?
«Certo, anche se non ne ho la più pallida idea. Ho raccontato emozioni e personaggi che conoscevo, cercando di rivelarne angosce, debolezze e paure».
Cosa c’è di Paul Beatty in Gunman Kaufman?
«Tutto: ci sono io in ogni parola, a cominciare dal fatto che ho fatto diventare il mio protagonista un poeta».
Il personaggio le somiglia anche quando diventa suo malgrado un portavoce dell’America black?
«Non mi sento così importante e comunque non me lo auguro».
Oggi assistiamo a un interesse internazionale forte per la letteratura di autori afroamericani: la riscoperta di James Baldwin, ma anche la fortuna di Margo Jefferson, l’autrice di “Negroland”. Come mai?
«Credo sia semplicemente un apprezzamento tardivo, e purtroppo ancora molto limitato, di un mondo troppo spesso ignorato: posso soltanto augurarmi che non si tratti unicamente di un momento, legato al politicamente corretto. Anche perché sono tanti gli autori di eccellenza».
Nel romanzo si sente anche una forte influenza della beat generation.
«Non posso negarlo e il cognome del protagonista è un omaggio a Bob Kaufman, un poeta dimenticato di quegli anni, al quale devo molto.
Come devo molto ad Allen Ginsberg, che è stato un mio docente: il semplice ascoltarlo mi ha formato enormemente».
Si può dire che la sua è anche una celebrazione della cultura di strada?
«Si, purché si capisca che anche in questo caso ho cercato di essere ironico. E ho cercato di capire come la strada sia il luogo principe in cui si fondono tante culture diverse».
Immagina il suo pubblico di lettori quando scrive un romanzo?
«Cerco di scrivere per tutti, sarebbe un grave limite, altrimenti: mi spaventano i libri con un fine preciso. Un critico ha scritto che questo mio primo romanzo è profetico rispetto alla comunità nera: ancora non capisco cosa intendesse».
Lei insegna scrittura: cosa suggerisce ai ragazzi? Si può insegnare a scrivere?
«Con gli studenti leggiamo a analizziamo insieme molti testi. Ritengo che si possa insegnare la disciplina, fondamentale per chi scrive. E nulla fa crescere come scrivere e scrivere ancora: con abnegazione, sapendo che la scrittura è un processo lungo e di lavoro continuo. Aggiungo che ho studiato poesia, e quell’esperienza mi ha aiutato molto».
I nuovi linguaggi hanno cambiato la letteratura?
«Le posso dire che spesso, leggendo gli scritti dei miei studenti, quasi sempre al presente, ho la sensazione che abbiano in mente un film più che un libro. E che per alcuni di loro un sms rappresenti già un testo. Ogni novità, anche tecnologica, influenza la letteratura: io stesso credo di aver cambiato stile rispetto a quando usavo la macchina da scrivere».
Lei ha ricevuto riconoscimenti di prima grandezza: crede che i premi abbiano un valore?
«Fanno certamente piacere e aiutano le vendite. Ma credo che servano soprattutto in termini di visibilità: ammetto che esistono scrittori di cui non sapevo nulla fin quando non hanno vinto il Nobel».
Cosa pensa del Nobel dello scorso anno a Bob Dylan?
«Che Dylan sia un grande è fuori discussione: ma la sua è veramente letteratura? Credo che quello dell’Accademia Svedese sia stato un modo facile per fare qualcosa di diverso».