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 2017  dicembre 05 Martedì calendario

La vecchia fattoria è una cartolina il futuro è extralarge

Le foto vincitrici del premio Food Sustainability Media Award ideato dal Barilla Center for Food & Nutrition raccontano la realtà delle 50mila factory farm americane: l’80% dei beni alimentari consumati negli Usa è prodotto nell’8% delle aziende agricole, dove crescono stipate fino a 100mila galline. Il rovescio della medaglia è l’uso eccessivo di ormoni e antiparassitari oltre al rischio di inquinamento
FOTOGRAFIE
La chiamano agricoltura. Da tempo però, almeno negli Usa, è diventata un’industria. Con fattorie diventate fabbriche, animali trasformati in macchine da hamburger, uova e latte e latifondi estesi come intere nazioni. Il nuovo “granaio” di un pianeta dove il boom della domanda di carne – triplicata negli ultimi 40 anni – ha trasformato stalle e campi reinventandoli (in nome del profitto e dell’efficienza) in versione XXXL.
Il fine, in teoria, è nobile: entro il 2050, dice la Fao, la terra dovrà trovare il 70% di cibo in più per sfamare tutti. La scorciatoia imboccata da molti big del settore per raggiungere l’obiettivo, quelli della produzione intensiva, sta cambiando radicalmente il mestiere di contadini e allevatori. Le piccole cascine familiari e gli orti sono un ricordo del passato.
L’8% delle fattorie americane produce l’80% dei beni alimentari consumati nel paese. La dimensione media degli appezzamenti di lattuga industriale, per dare un’idea, è pari a 1.370 campi di football americano. E buona parte della terra disponibile e arabile (non solo in America ma anche in Asia e in Africa) serve a garantire il mangime ai giganteschi allevamenti documentati dalle fotografie in queste pagine di George Steinmetz.
Il nome tecnico di queste megalopoli per animali è Cafo (“Concentrated animal feeding operation”), come si chiamano in America le 50mila “factory-farm” che ospitano oltre mille vacche o più di 100mila galline l’una, stipate in spazi strettissimi. Il 72% dei polli che finiscono nei piatti Usa, il 55% dei maiali e il 74% dei bovini, nasce, vive e muore in queste realtà.
Spesso senza aver mai calpestato un filo d’erba.
Le immagini bucoliche stampate sulle etichette nei supermercati sono lontane mille miglia dalla realtà. Negli allevamenti intensivi si consuma l’80% degli antibiotici venduto negli Usa per evitare infezioni tra le bestie. Le super-fattorie, calcolano le Nazioni Unite, consumano il 30% del grano e l’80% della soia raccolti ogni anno al mondo, in un gioco alimentare a somma algebrica negativa, visto che per mettere nel piatto 30 calorie di carne ne bruciamo circa 100 di vegetali e che per produrre un chilo di bistecche sprechiamo 15mila litri d’acqua.
L’allevamento intensivo ha una sua ragione economica semplice: l’efficienza costa. E per poter aumentare la produttività servono investimenti alla portata solo dei big, specie in un pianeta dove i prezzi dei beni alimentari e delle materie prime tendono a scendere. Il lavoro dei contadini nei campi è diventato ormai una questione di precision farming, come dicono oltreoceano. Servono droni per controllare lo stato di salute e il fabbisogno chimico e idrico di ogni metro quadro di terreno, trattori senza guidatore per lavorare 24 ore su 24 e antiparassitari sempre più costosi.
Mezzi alla portata solo delle aziende più grandi. Lo stesso vale per gli animali d’allevamento, spremuti dalla scienza sull’altare dei profitti.
Nel 1970 una mucca a stelle e strisce garantiva al suo “padrone” 4.122 chili di latte l’anno. Oggi 10.370. Gli ormoni (vietati in Europa) hanno aumentato in 30 anni da 240 a 294 kg. la resa di carne in ogni animale macellato. E poco importa se la mortalità dei bovini in questi gironi infernali è salita per la University of Cornell dal 3,8% del 1996 al 10%.
Le autorità di controllo hanno da tempo acceso un faro sulla “sostenibilità” di queste realtà. La “Enviromental Protection agency” le ha messe sotto osservazione per il rischio di inquinamento delle falde acquifere, molti fondi d’investimento “etici” hanno tolto i soldi agli allevamenti che usano troppi antibiotici. Il fenomeno “bio” ha rilanciato l’interesse per l’agricoltura sostenibile. Le fattorie extralarge però, in un mondo che compra sempre più carne, continuano a crescere. E dagli Usa sono già sbarcate pure in Cina e Sud-America.