la Repubblica, 4 dicembre 2017
Margaret Atwood adesso balla con Shakespeare
«Riconosceva il suo dramma, un dramma di cui lui era l’unico spettatore. Era infantile intestardirsi a voler essere giù di corda. Non era un comportamento adulto».
Felix, il protagonista di Seme di strega di Margaret Atwood (Rizzoli, traduzione di Laura Pignatti) è un regista teatrale, o almeno, lo è stato.
La vita di Felix, quando lo incontriamo, è già al passato.
Ha avuto una moglie, ha avuto una figlia, ha diretto un festival di teatro, ha pensato di mettere in scena La tempesta di Shakespeare e di vestire Prospero con un mantello di pelouche svuotati e cuciti l’uno accanto all’altro come in un patchwork di pelo sintetico e occhi di plastica, «questi animali avrebbero evocato la natura elementale dei poteri soprannaturali e tuttavia naturali di Prospero».
Al presente, la vita di Felix s’è ristretta, nessun arredo umano, nessun arredo tout court nella piccola stamberga presa in affitto per sottrarsi al mondo. Felix mangia un uovo alla coque, spia in internet le persone – Tony e Sal, ex colleghi e forse amici – che lo hanno tradito e si prende cura della figlia Miranda, di quel che ne rimane – una foto su un’altalena in una cornice d’argento – lo spirito. Come tutti gli spiriti, dagli alcolici ai fantasmi, anche Miranda altera il passare dei giorni di Felix. Così fanno gli spiriti, così è se gli pare.
Tuttavia, in questa vita isolata alle cui finestre si vede la campagna fredda e inospitale, arriva, sempre via etere – spiriti anche questi – la possibilità di sostituire un insegnante nel vicino carcere.
Un insegnante di teatro. «Ma che forma avrebbe potuto prendere la sua vendetta?».
La maschera, con la speranza forse che la maschera, alla fine, diventi il volto. Felix sceglie uno pseudonimo, e comincia a insegnare a un gruppo di galeotti, comincia con Giulio Cesare, Macbeth, Riccardo III, comincia con i dolori, le lotte, le vendette, i tradimenti, le risse – «Perché no? Tutti adorano le scene delle risse: è per questo che Shakespeare le ha messe» – per tornare, infine, a Prospero, per liberare dall’isola della propria memoria la figlia Miranda, e per sé stesso.
Felix, alias Signor Duke, decide che, passati dodici anni, può mettere in scena La tempesta che gli era stata negata. E lo fa. In carcere.
«Sono le parole che dovrebbero preoccuparvi, pensa Felix guardando le guardie all’entrata. È questo il vero pericolo. Le parole non le vedono gli scanner».
Seme di strega è la riscrittura che Atwood ha fatto de La tempesta di Shakespeare. Ed è il quinto volume di un progetto della Hogarth Press (casa editrice fondata nel 1917 da Virginia Woolf e suo marito Leonard) di riscrittura, a 400 anni dalla morte, delle opere del bardo. Lo hanno già fatto Jeanette Winterson, Jo Nesbø, Tracy Chevalier e Anne Tyler.
La tempesta è toccata ad Atwood, così come doveva essere per la natura (della narrativa) di Atwood, per le sue incursioni, frequenti e risalenti, in qualcosa che può essere assimilato al genere, soprattutto toccava a lei per l’ossessione – sapiente e risalente – che riguarda il concetto di prigione, clausura, confino, esclusione e reclusione. In Shakespeare, Prospero e sua figlia Miranda sono confinati sull’isola.
Prospero, dal canto suo, tiene al laccio Ariel, spirito dell’aria, Caliban frutto della terra, sua figlia stessa e Ferdinand, tutti.
Nella Tempesta, conta Atwood, ci sono ben nove prigioni e l’ultima è il dramma stesso. Tutto è un carcere, tutti siamo carcerieri (gli uomini di più), pochi intuiscono e ancora meno accettano che l’ultima magia, imparati e abusati gli incantesimi, è smettere di fare magie. «Comunque, ce l’ho fatta», si dice. «O almeno non ho fallito». Perché gli sembra un tradimento? Più raramente ci si risolve al perdono che non alla vendetta, sente nella sua testa. Atwood mette in scena due volte, tre, moltiplica – e d’altronde La tempesta è il dramma nel ( sul, col, pel) dramma – il racconto del carceriere e del carcerato, figure coincidenti quando, per un momento o per una vita, si pensa che sia possibile correggere il male invece di concentrarsi sul far sì che il male non accada.
Come per Shakespeare, così per Atwood, il passato è un prologo. Come per Felix, così per Atwood «il testo non è una vacca sacra» tanto che Ariel, lo spirito dell’aria, è un giovane hacker ( tutti gli spiriti, anche il mondo di etere, alterano la realtà. Ma, allora, quanto è debole e che cos’è la realtà?), Ferdinand, un seduttore a fini di lucro su polizze vita, Caliban è un rapper, tutto è retto dai coboldi, folletti formicolanti che trascinano azione drammatica e attori in commedia, Miranda è una ex ballerina che parla come uno scaricatore di porto.
Dopo Il racconto dell’ancella ( pubblicato da Ponte alle grazie, l’editore italiano di Atwood), dopo L’assassino cieco, dopo L’altra Grace, dopo cinque premi Pulitzer, candidature al Nobel e otto Emmy Awards per la serie tratta da Il racconto dell’ancella, Atwood racconta qui il caleidoscopio, la messa in scena della nostra idea di noi stessi davanti a noi stessi, e dunque e per sempre, di fronte al noi stessi vero, affidabile e socratico che sono gli altri. «Guardare le molte facce che guardavano le proprie facce mentre fingevano di essere qualcun altro: Felix, questo, lo trovava stranamente commovente.
Per una volta nella vita, volevano bene a sé stessi».