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 2017  dicembre 04 Lunedì calendario

Contrordine, il software libero fa guadagnare tutti

“Nove aziende informatiche su 10 usano un software libero”, dice Stefano Zacchiroli, docente d’informatica all’università Diderot di Parigi. Il software open source è diverso, chiunque può usarlo e migliorarlo perché è senza proprietario, un bene comune. Milioni di programmatori collaborano senza compenso, violando la prima regola della scienza economica: l’uomo vuole arricchirsi. Linux, il sistema operativo aperto, è ovunque: negli smartphone Android, sui server di Google, Facebook ed Amazon, con la domotica entra negli elettrodomestici. I colossi digitali investono sempre più nell’open source.
Del resto, il sangue dell’innovazione scorre nelle reti libere. Microsoft odiava l’open source. Oggi finanzia con 100 mila dollari l’anno la Linux Foundation, usa un software libero e lo condivide su github.com, il social network dei programmatori con 3 milioni di utenti. Una svolta epocale: a Redmond, sede di Microsoft, piovevano miliardi grazie alla proprietà del codice, blindato e inaccessibile. Ora lo scrigno inizia ad aprirsi: come se la Coca Cola svelasse la ricetta per chiedere ai suoi clienti di migliorarla. I dipartimenti di ricerca e sviluppo non bastano più. “Windows Vista l’hanno creato 4 mila dipendenti, la comunità Fedora ospita 2 milioni di programmatori”, dice Antonio Leo di Red Hat.
L’azienda dal cappello rosso è una software house particolare: il codice lo scrive insieme alle comunità, come Fedora e JBoss. Red Hat verifica e certifica il software, offre alle aziende soluzioni personalizzate, supporto tecnico e formazione. Ma il codice sorgente resta pubblico, protetto dalla licenza Gpl (General Public License), affinché chiunque possa modificarlo. “Fedora ospita hobbisti e professionisti, l’unica bussola è la meritocrazia”, racconta Leo. Che spiega: “Se sei bravo vinci visibilità e reputazione, diventi un leader, molti dipendenti Red Hat sono star dell’open source”.
Si collabora tra pari, ma qualcuno è più uguale degli altri, per evitare il far west: “Chiunque può scaricare e modificare il codice, ma sono i developers senior a decidere se una modifica è utile oppure o no”. Red Hat finanzia Fedora e piazza i suoi uomini nella comunità, per proteggere un business da quasi 3 miliardi di dollari. È merito del fatturato, se aziende come Microsoft sposano l’open source, in un matrimonio misto tra profitto ed economia del dono. Sull’altare del denaro, si sacrifica il copyright: le corporation rinunciano alla proprietà del software per condividerlo con utenti che lo migliorano gratis.
Openstack, ad esempio, è la più grande comunità dedicata al cloud, la nuvola (cioè i server) per archiviare documenti online. Nasce 5 anni fa col sostegno della Nasa, oggi riceve soldi da più di 600 aziende. Un tempo, ciascuno avrebbe brevettato la sua tecnologia, scendendo in trincea per il copyright. Ora si collabora per una soluzione aperta. Openstack non è anarchia: include sviluppatori stipendiati dalle aziende e poggia su una fondazione. Ma il cuore dell’innovazione è nelle viscere della comunità, più di 8 mila volontari da 187 paesi. Impossibile imbrigliarli. Soprattutto, inutile. Il motore del progresso, secondo lo studioso del Mit Eric Von Hippel, sono gli utenti: “Innovano in tutti i campi, l’industria impara da loro e li segue coi prodotti commerciali”.
Il software, fonte di ricchezza nel mondo globalizzato, in Italia invece porta sprechi. Secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’innovazione, la Pubblica amministrazione ha speso dal 2011 al 2017 20,4 miliardi di euro in tecnologie informatiche, ma l’85% delle gare d’appaltp aveva un solo partecipante. Del resto, secondo la Commissione, i dirigenti pubblici non conoscono il digitale né le leggi che lo governano. Lo Stato deve usare software open source, sempre, a meno che la soluzione proprietaria mostri un vantaggio evidente. Lo impone l’art. 68 del codice di Amministrazione digitale. Il ministero della Difesa ha abbandonato Microsoft Office per LibreOffice, la versione aperta scritta dagli utenti. Il risparmio, secondo il generale Camillo Sileo, è di 29 milioni in 5 anni. In un click, spariscono gli appalti.
Secondo Yokai Benkler, di Harvard, nasce una nuova economia fondata sulla partecipazione dal basso. Facebook e Google non sono diversi da Red Hat: guadagnano col contributo gratuito delle persone. I social non esisterebbero senza i post, l’algoritmo di Mountain View funziona grazie ai link degli internauti. Alcune comunità, a differenza di Fedora, tengono il business sulla porta, come Debian, “una versione di Linux che accoglie solo volontari”, spiega ancora Stefano Zacchiroli dell’Università Diderot. Dal 2010 al 2013 è stato a capo della comunità come Project leader: “Debian ha una costituzione e regole condivise da 25 anni”. Il Project leader è eletto a maggioranza con voto elettronico, ogni anno: dialoga col mondo esterno e coordina il lavoro senza mai imporlo. I volontari non hanno obblighi, possono votare per revocare il project leader e le sue decisioni, in ogni istante: “Per andare alle urne, però, serve il consenso di metà comunità”, dice Zacchiroli. Non esistono sanzioni, ma se ostacoli il progetto vieni espulso. La commissione tecnica, una sorta di tribunale, scioglie le controversie.
Il risultato è un sistema operativo libero ed affidabile: “Lo usano i programmatori di Google, che finanzia eventi, qualche server, piccoli regali per ingraziarsi la comunità”.
Nella galassia open source, pochi pianeti, come Debian, condividono regole per risolvere conflitti e prendere decisioni. Dove mancano, comanda il dittatore benevolo: “Come Linus Torvalds per il Kernel Linux tutti liberi – racconta Zacchiroli – ma il fondatore ha l’ultima parola. Il modello storico dell’open source sta scemando, vince l’organizzazione orizzontale”.
Ruoli e gerarchie cadono anche nelle imprese, specie dell’industria informatica. Valve, ad esempio, è una software house senza capi. Con la piattaforma Steam, distribuisce videogiochi per Pc a 200 milioni di clienti. Il fondatore, Gabe Newell, è tra i 100 uomini più ricchi d’America. Ma su assunzioni e stipendi decide un comitato di dipendenti estratti a sorte. Valve non è sola. Centinaia di organizzazioni hanno adottato una struttura orizzontale senza dirigenti, chiamata Holacracy. L’ha brevettata, nel 2009, Brian Roberts; un programmatore, non a caso. A Valve, fino al 2012, lavorava l’ex ministro greco Yanis Varoufakis. Il motivo? “Studiare la struttura interna dell’azienda, speciale e affascinante”, scriveva sul suo blog, nel 2012, l’uomo contro la Troika. Anche la politica, quella che si nutre della partecipazione dei cittadini, si organizza in reti senza capi.