Il Messaggero, 3 dicembre 2017
Ecco la vera Plath, la grandezza oltre la maschera
«Un giorno sarò come Emily Dickinson o Marianne Moore», confidava Sylvia Plath alla madre nell’autunno 1962, pochi mesi prima del suicidio. Aveva ragione, poiché oggi il suo nome – spiega Leonetta Bentivoglio nel magnifico saggio Sylvia Plath. Il lamento della regina (Edizioni Clichy, 125 pagine, 7,90 euro) – viene unanimemente accostato a quello delle grandissime poetesse americane. Anche se troppo spesso, aggiunge Bentivoglio, l’enorme bagaglio di analisi proposte sul suo lavoro fonde con irritante superficialità le motivazioni artistiche con le esperienze biografiche. Insistendo oltre il lecito sulle circostanze che ne causarono la tragica morte, sulla genesi della scelta compiuta la mattina dell’11 febbraio 1963, quando si lasciò soffocare dal gas nella cucina dell’appartamento di Londra dove viveva con i due figli dopo essersi separata dal marito. All’epoca della scomparsa Sylvia Plath era solo la moglie di Ted Hughes, un giovane poeta emergente, sconosciuta autrice di Il colosso, raccolta di liriche uscita nel 1960 e passata quasi inosservata.
ORTODOSSIA
Il ritratto che propone Bentivoglio, in un volume arricchito da molte immagini poco note in Italia, libera Plath dalle rigidità dell’ortodossia femminista, solerte nel proporla, al pari di Virginia Woolf, come vittima sacrificale di una sete di dominio maschile. La donna esuberante e introversa, nata a Boston nel 1932 da padre tedesco e madre di origine austriaca, allieva del prestigiosissimo Smith College del Massachusetts, poi approdata in Europa per seguire corsi a Cambridge, va invece ritenuta «una fonte d’arte nutrita da dimensioni che oltrepassano la cronaca», un’artista geniale e innovativa, che firma testi nei quali affronta con coraggio il tema del male alla luce dei massacri di cui il secolo breve è stato troppo volte testimone.
Precisa la studiosa: «Sylvia sa che trappole, maschere e deviazioni costituiscono il mantello del vivere in questa nostra terra litigiosa e tossica. Impossibile eliminare il nucleo della sofferenza. Ma si può sfiorarla con l’indagine sacrificale della poesia. Il tragitto ferisce, perché compiendolo si assiste a spettacoli immondi come quelli di Auschwitz, Bergen-Belsen e Dachau, che Plath cita in Daddy’, la celebre poesia dedicata al padre». Sarebbe mai potuta uscirne viva? E ancora, si chiede Bentivoglio, voleva veramente uscirne viva? Scorrendo i diari, apparsi postumi, la risposta è univoca: la fascinazione della morte, inesauribile fonte di creatività, l’accompagnò sempre.
È perciò fuorviante interpretare il gesto del 1963 come la protesta di una moglie tradita. Chi continua a ritenerla vittima di Ted Hughes e, più in generale, dei pregiudizi maschili verso le artiste, le rende un pessimo servizio, dimostra Bentivoglio in questo volume. Perché ne svaluta, ponendolo in secondo piano, l’enorme talento e la bellezza di versi che proiettano il lettore verso zone lontane dall’ambito del raziocinio. Un territorio con caratteristiche analoghe a quello caro a Pina Bausch, rivoluzionaria coreografa e regista. Interpretate come purissimo oggetto lirico, suggerisce la studiosa, le poesie di Plath «riflettono l’attrazione dei romantici tedeschi per l’antico universo dei miti» e offrono la sintesi di un’indagine intellettuale tra le più ardite della letteratura di lingua inglese del secolo scorso.