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 2017  dicembre 03 Domenica calendario

C’è del marcio nel pulito. L’ipotesi che troppa pulizia scateni malattie allergiche mette in discussione pratiche introdotte dalla ricerca scientifica

C’è un risvolto sporco del pulito? Ovvero, c’è del marcio anche nell’igiene? Il senso comune, creato da pubblicità e televisione, porterebbe a dire no, a parte l’immaginario cosiddetto ecologico, che in taluni casi ritiene l’uso degli strumenti per sanificare gli ambienti occupati dall’uomo, per esempio detergenti o antiparassitari, fonte di inquinamenti ambientali e quindi anche di malattie per effetti intossicanti.
Da trent’anni circa negli ambienti biomedici, ma ormai anche nei mezzi di informazione, è in auge l’ipotesi “igienica” sulle cause delle malattie allergiche, autoimmuni e infiammatorie. Che negli ultimi anni però gli esperti hanno cominciato a mettere in discussione quanto per l’uso troppo disinvolto della parola “igiene”. La teoria fu formulata nel 1989 per suggerire una spiegazione dell’aumento dell’incidenza delle allergie e delle malattie autoimmuni con la scomparsa dall’ambiente o la riduzione di frequenza degli agenti infettivi storici, soprattutto patogeni (morbillo, rosolia, tubercolosi, etc.), come conseguenza degli interventi di prevenzione e soprattutto dell’igiene.
Il ragionamento funziona più o meno nel seguente modo. Il nostro sistema immunitario si è evoluto in ambienti dove era costante la presenza e il contatto, soprattutto nelle fasi precoci della vita, con agenti infettivi, sia patogeni sia simbiotici (quelli che formano il microbioma). Queste interazioni furono usate per centinaia di migliaia di anni dal sistema immunitario, che come il cervello è in grado di apprendere e in particolare impara in utero e dalle prime esperienze ambientali, a quali stimoli rispondere e come, e quali ignorare (tollerare).
Questo significa per il sistema immunitario di ognuno di noi predisporre e organizzare un esercito differenziato e ben bilanciato a livello delle legioni di cellule che devono tenere a bada diversi tipi di patogeni, come virus, batteri, protozoi parassiti, elminti, etc., ovvero per sapere quali attaccare e con quali forze (tipi di cellule e macromolecole) e quali ignorare perché convivono nel nostro intestino dove svolgono funzioni essenziali a mantenerci in salute.
L’ipotesi igienica all’incirca dice che la scomparsa di alcuni stimoli ambientali dovuti ai vaccini, all’uso degli antibiotici e all’igiene sanitaria e domestica, confonde il sistema immunitario, che non incontrando più gli stimoli infettivi che la selezione naturale lo ha geneticamente predisposto ad aspettarsi, svilupperebbe un disequilibrio tra le sottopopolazioni di linfociti T, per cui tenderebbero a prevalere, in modo anomalo, ad esempio i linfociti che scatenano risposte allergiche (Th2).
L’origine dell’ipotesi igienica risale all’osservazione che nelle famiglie con più bambini e meno igiene, ci sono meno allergie. E che i bambini e adulti che vivono in Paesi in via di sviluppo, nelle periferie delle città o nelle campagne, cioè in mezzo allo sporco, si ammalano significativamente (anche 10 volte!) di meno di asma, diabete di tipo 1, colite ulcerosa, sclerosi multipla etc. Poi si constatò anche che i bambini che nascono con il cesareo, cioè che non passano dal canale del parto e quindi non si sporcano con i microbi della madre, o che non sono allattati (non succhiano i microbi presenti sul seno materno), hanno un microbioma intestinale diverso da quello dei bambini che nascono naturalmente. E anche questo sarebbe causa di uno sviluppo anomalo del sistema immunitario. Un dato, quest’ultimo, in realtà non confermato.
L’ipotesi ha una plausibilità teorica e alcune basi sperimentali, ma trasmette anche l’idea che la causa delle allergie e malattie autoimmuni sia l’igiene in generale. Un’idea che fa breccia perché mette in discussione pratiche introdotte dalla ricerca scientifica e che limitano la spontaneità dei comportamenti. Nei mezzi di informazione l’ipotesi igienica circola spesso nella forma che sarebbe insano lavarsi le mani. Il fatto è che lavarsi troppo le mani non è sano, ma non lavarsele può essere altrettanto, se non più pericoloso. Da qualche anno i più importanti studiosi internazionali di questa ipotesi cercano di cambiargli nome e di spiegare che le cose sono più complesse di come intuitivamente si pensa comprese.
Dovremmo cambiare il nostro modo di pensare sullo sporco e il pulito? Nel prologo di un libro coltissimo, pubblicato dall’industriale bresciano delle pulizie Giulio Guizzi, si dice che «la pulizia è un bisogno primario, una delle attività fisiche umane, insieme al food agricolo, più importanti, se non la più importante, per la sopravvivenza della specie».
Forse il sesso, insieme al cibo (a prescindere se sia agricolo o no), sono i due bisogni davvero primari per la continuità della specie. Ma gran parte dei tabù sessuali o alimentari, veicolati da religioni tradizionali o pseudo-laiche, hanno un’origine nell’idea di contaminazione e di sporco. Persino gli animali dedicano tempo a tenersi puliti, perché lo sporco può essere dannoso in molti modi, il principale essendo che veicola agenti parassitari e quindi malattie: la teoria della selezione sessuale prevede che i maschi infetti abbiano livree sbiadite o meno appariscenti e pulite; ovvero che la sporcizia sia un indicatore di debolezza fisiologica e presenza di parassiti, per cui le femmine evitano di accoppiarsi con questi esemplari.
Come scrive Guizzi: «Lo sporco e la pulizia hanno giocato un ruolo nella storia delle idee con implicazioni filosofiche, psicologiche, letterarie e religiose. L’attenzione alla pulizia, alla rimozione, all’asportazione e all’allontanamento della sporcizia dicono molto di ciò che vuol essere un popolo e di quale sia il suo livello di civiltà». Il libro lo dimostra, raccontando con dettagli la storia culturale dell’idea di pulizia intesa sia come pratica socio-culturale sia come salute, e dell’evoluzione delle strategie comportamentali e poi tecnologiche per la sanificazione.