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 2017  dicembre 03 Domenica calendario

Afghanistan, sicurezza fuori controllo: 1.700 i civili uccisi in sei mesi

L’aria è irrespirabile. Non solo per l’inquinamento che “brucia” occhi e gola, ma anche perché ogni vicolo, negozio o ristorante, può rivelarsi una trappola mortale per chi vi si trova a passare, comperare, mangiare. Kabul è lo specchio dell’intero Afghanistan. Nonostante i proclami di una pur lenta stabilizzazione, di stabile non vi è nulla. In vista degli appuntamenti del 2018, con le elezioni parlamentari e distrettuali e del 2019, con quelle presidenziali, gli attentati si intensificano.
Più di 200 membri delle forze di sicurezza afghane sono morti di recente, nel tentativo di proteggere la popolazione – circa 1.700 civili hanno perso la vita nel primo semestre del 2017 e almeno tremila sono i feriti – e gli obiettivi sensibili quali ambasciate, caserme, moschee, mercati, studi televisivi. In presenza di 30 gruppi terroristici che si contendono il territorio, le autorità hanno difficoltà ad attribuire la paternità degli attacchi. I gruppi che li rivendicano e che costituiscono il problema reale del Paese restano però due. I taleban, da una parte, che risentono dell’ascesa del Daesh, dall’altra. Quest’ultimo conta sul suo ramo afghano, il “Wilayat Khorasan”, attivo al confine col Pakistan, per acquisire fette sempre più ampie del Paese. La lotta tra i due contendenti viene alimentata, dietro le quinte, da Paesi che mirano a riacquistare un ruolo nell’area. Tra questi la Russia, accusata dal Presidente Ashraf Ghani di dare man forte all’ala armata dei taleban ai quali il governo propone invece la tregua.
Nel caos, riappare la figura dell’ex presidente Hamid Karzai, che aveva lasciato nel 2014 dopo due mandati e, mordendo la mano che lo ha nutrito per anni, definisce gli States «sostenitori del Daesh» mentre si prepara a tornare in competizione nel 2019.
Gli equilibri, influenzati anche dalle ambizioni di controllo sull’Afghanistan dei Paesi confinanti quali Iran e Pakistan, vengono spostati continuamente tramite la guerriglia che sfibra e scoraggia la già stanca popolazione. I taleban sono poi assai “incattiviti” per la scissione interna al movimento, seguita all’offerta di un accordo di pace da parte del presidente Ashraf Ghani, supportato dagli Usa di Trump. L’ala combattente non intende scendere a patti e accusa di tradimento i “moderati” che strizzano l’occhio al governo e, dunque, all’America. Altra fonte di dissapori è dovuta al ruolo da “mediatore” con i taleban assegnato da Ghani e Usa al «boia di Kabul» Gulbuddin Hekmatyar, ex leader dei mujaheddin nella resistenza contro la Russia e fondatore del gruppo paramilitare Hezb-i-Islami. Il presidente afghano, vedendo sorgere ombre su una futura riconferma, gioca la carta di un “Road map plan”, piano per il benessere economico, le conquiste sociali e la lotta alla corruzione.
Ghani conta ancora molto sulla collaborazione con la Nato, che con la missione Resolute support addestra le forze afghane. «Rimarremo fino al 2020. Questa però, come dichiarato da Trump, resta una missione “condition based”, cioè legata al raggiungimento dell’obiettivo di formare le forze militari per renderle in grado di combattere da sole le minacce interne. Se non raggiungeremo lo scopo, resteremo oltre», spiega il vicecomandante della missione, il generale di corpo d’armata Rosario Castellano. In definitiva, l’osso Afghanistan non sarà mollato da nessuno, almeno finché le elezioni non sanciranno nuovi assetti di potere.