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 2017  dicembre 01 Venerdì calendario

Forze speciali cinesi in Siria. Assad trova un nuovo alleato

Arrivano i cinesi, si riducono gli americani e, forse, anche i russi (che però vogliono spostarsi in Egitto). Il bollettino sulle forze militari straniere in Siria è fitto, mentre sono in corso i colloqui di pace a Ginevra e le ricadute degli accordi fra Russia, Turchia e Iran a Sochi cominciano a incidere sul terreno. La novità è l’arrivo delle forze speciali cinesi, due unità addestrate per la lotta al terrorismo. L’intervento è voluto da Bashar al-Assad in persona, che ha spedito il suo consigliere speciale Bouthaina Shaaban a Pechino.
Ieri il ministero della Difesa avrebbe dato il via libera al dispiegamento delle unità «Tigri siberiane» e «Tigri notturne». L’intervento è dato per certo dai media filo-Damasco ma è confermato anche da altri vicini all’opposizione, come Al-Arabi al-Jadid. Il corteggiamento di Damasco a Pechino dura da parecchi mesi e ha una motivazione specifica. Dopo la sconfitta dell’Isis nell’Est ora Assad vuole riconquistare la provincia di Idlib, roccaforte di gruppi ribelli legati ad Al-Qaeda. Uno dei più ostici è il «Partito del Turkestan», composto da combattenti uiguri, musulmani cinesi di etnia turca.
Gli uiguri si sono stabiliti sulle montagne Idlib e Lattakia, hanno portato con loro le famiglie e combatteranno fino alla morte perché non possono tornare, vivi, in Cina. L’offensiva a Idlib è in stallo e l’idea di andare a stanare gli uiguri sulle montagne è da brividi anche per le truppe più sperimentate del raiss. Già a maggio l’ambasciatore siriano a Pechino, Imad Moustapha, aveva dichiarato che i foreign fighter uiguri in Siria erano un problema anche per la Cina perché dalla Siria promuovevano «la causa della secessione dello Xinjiang», la loro regione.
Parole studiate per convincere Pechino, che è sensibilissima a ogni allarme separatista. L’ambasciatore stimava allora i combattenti islamisti in «5000 mila», uno dei più folti contingenti di foreign fighters. Il corpo di spedizione cinese sarà composto da qualche centinaio di uomini e andrà a complicare uno scacchiere dove si incrociano militari di tutte le nazionalità. Russia e Turchia hanno ciascuna circa 8 mila soldati. Gli americani, come ha comunicato tre giorni fa il Pentagono, sono 1700.
Marines e forze speciali hanno sostenuto i guerriglieri curdi nella battaglia di Raqqa contro l’Isis ma ora la loro presenza è in forse. Il presidente Usa Donald Trump ha promesso al leader turco Recep Tayyip Erdogan di ridurre gli aiuti ai curdi, ieri Washington ha annunciato il ritorno a casa dei reparti di artiglieria dei Marines. Gli Stati Uniti però vogliono calibrare il loro ritiro con quello dei rivali. Mosca ha fatto trapelare che si sta preparando, anche se conserverà le basi a Tartus e Lattakia.
L’intervento iraniano è più circospetto. Teheran non ha inviato soldati ma consiglieri militari a guidare le milizie sciite alleate libanesi e irachene. La presenza iraniana è osteggiata da Israele e ieri il ministro degli Esteri iraniano, Mohamad Javad Zarif, intervenuto ai Mediterranean Dialogues di Roma, ha ribadito che continuerà: «Noi siamo della regione mediorientale, è la nostra casa», ha spiegato, anche se l’Iran non vuole «escludere nessun attore regionale da questa casa, Arabia Saudita, Emirati, Egitto o Siria» e lavorare per la pace.
In questo Medio Oriente in ristrutturazione Mosca continua a essere protagonista. Il ministro della Difesa Sergei Shoigu è arrivato ieri al Cairo per sviluppare la cooperazione militare. Ha incontrato il collega Sedki Sobhi e il presidente Abdel Fatah al-Sisi. L’obiettivo dei russi, neanche più tanto segreto, è riaprire la loro base aeronavale a Sidi Barrani, vicina al confine con la Libia, chiusa dopo la rottura fra Egitto e Urss alla metà degli Anni 70.