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 2017  dicembre 01 Venerdì calendario

Il nuovo dominus del cartello? La Russia di Putin

Una decisione unanime, ma solo all’apparenza. Sotto la superficie, sugli incontri di Vienna ha pesato come mai finora il fronte dei produttori esterni al cartello: ovvero la Russia, che in questi mesi si era unita allo sforzo comune di ridurre la produzione per rianimare i prezzi. Missione compiuta, almeno per le compagnie russe.
A Mosca un prezzo del petrolio tra i 50 e i 55 dollari al barile sta bene, per diverse ragioni. Così, invece di prolungare i tagli produttivi per altri nove mesi i russi avrebbero preferito un tapering, uscendo gradualmente da un regime che va stretto alle compagnie ansiose di tornare a estrarre a pieno ritmo. Ma a Vienna le considerazioni su livelli produttivi e mercati erano intrecciate a quelle di ordine geopolitico. Pensando a queste, Vladimir Putin ha cercato un equilibrio tra i propri interessi e la necessità di prolungare, insieme all’accordo sui tagli, la cooperazione con i sauditi e i vantaggi che questa gli assicura. I tagli proseguiranno dunque fino a dicembre 2018, ma per desiderio di Mosca a giugno ci sarà una revisione. Un modo per mettere le mani avanti con i mercati: la Russia vuole evitare grandi scosse.
I sauditi, che invece avrebbero bisogno di rilanciare al massimo i guadagni del regno in un momento cruciale, devono aver fatto fatica ad accettare un compromesso,a condividere con il Cremlino quello che finora era stato un loro potere quasi incontrastato. «Putin si incorona re dell’Opec», titola l’agenzia Bloomberg. Un sovrano esterno al cartello, ma al centro dell’attenzione non solo per considerazioni energetiche. Basta scorrere l’elenco dei Paesi membri – Venezuela, Iran, Iraq, Angola – per soppesare il significato della Russia per ciascuno di loro, dal sostegno economico che tiene in vita Caracas alla regia della guerra in Siria al fianco di Teheran. E proprio sul palcoscenico siriano, dove russi e iraniani stanno spingendo Bashar Assad alla vittoria, i sauditi sono in difficoltà. Anche loro hanno bisogno di non guastare i rapporti con Mosca.
Alle spalle di Putin, un altro zar del petrolio preme perché i tagli non abbiano vita lunga. Igor Sechin, alla guida di Rosneft, primo produttore del Paese, non ha mai visto di buon occhio controlli che – come ricordava di recente al Forum economico sull’Eurasia a Verona – hanno costretto le compagnie a rivedere parte dei programmi,a lasciare in sospeso investimenti che non potranno più essere recuperati: «Questo compromette la stabilità del mercato».
E questo timore dell’instabilità è una delle ragioni per cui la Russia preferisce un livello di 50-55 dollari al rischio di una fiammata che potrebbe non essere sostenibile, e provocherebbe altre cadute rovinose come nel 2008 e nel 2014. Un calcolo approssimativo indica che se il prezzo del petrolio aumenta di 10 dollari, nelle casse dello Stato russo entrano circa 3,5 miliardi di dollari in più. Eppure, agli occhi dei russi, aumento dei prezzi significa anche aumento degli investimenti nello shale di Usa e Canada, e nello stesso tempo incentiva gli investimenti in energie rinnovabili, in competizione con gli idrocarburi.
Un secondo motivo per diffidare dei rialzi del petrolio, a Mosca, è l’impatto sul rublo. Fino a qualche tempo fa la moneta russa si rafforzava in simbiosi con il greggio, penalizzando l’industria locale nel confronto con l’estero. Il Cremlino ha chiarito da tempo che preferisce un rublo debole, per alimentare le esportazioni e frenare la domanda di costoso import. I destini di petrolio e moneta hanno iniziato a separarsi con l’introduzione di un meccanismo che a maggiori entrate in valuta dal settore dell’energia fa scattare la conversione di rubli in valuta estera, mantenendo la pressione al ribasso. Ma se il greggio salisse troppo, si teme, questo equilibrio potrebbe vacillare.
Contro un petrolio troppo alto poi è il fronte dei riformatori, convinti che il ritorno all’era dei surplus di bilancio grazie all’energia scoraggerebbe il processo di diversificazione dell’economia per ridurne la dipendenza dal petrolio, allontanando ulteriormente le riforme. «Se anche il greggio salisse a 100 dollari – diceva tempo fa Elvira Nabiullina, presidente della Banca centrale – l’economia non potrebbe crescere più dell’1,5/2% senza riforme strutturali e un miglioramento del clima per gli investimenti». Qui l’attesa continua, ma la diversificazione è stata avviata, aiutata dal buon andamento dell’agricoltura.
Ora però tutta l’attenzione è concentrata sulla primavera, la missione è far rieleggere senza problemi Putin. A questo scopo il governo ha annunciato due giorni fa che destinerà 500 miliardi di rubli(7,1 miliardi di euro) in sussidi e incentivi alle famiglie, per incoraggiare le nascite. Valentina Matvienko, presidente della Camera alta, ha assicurato tutti che per questo le riserve dello Stato sono più che sufficienti. Se poi ci sarà anche l’attesa indicizzazione delle pensioni – come è possibile ora che la campagna elettorale entra nel vivo – chi ha bisogno del petrolio a cento dollari?