Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 01 Venerdì calendario

La strana coppia Opec-Russia, i nuovi padroni del petrolio

Il primo risultato è economico: l’accordo tra i maggiori produttori di petrolio del mondo per il taglio delle quote ha tenuto e questo significa che i prezzi della benzina non scenderanno in scia al greggio, le cui quotazioni si mantengono sopra i 60 dollari al barile. Il secondo risultato è politico: senza la Russia, i paesi dell’Opec non riescono più a essere determinanti nell’influenzare le scelte degli investitori.
Sono questi i due fatti più significativi all’indomani dell’accordo, per certi versi storico, raggiunto ieri a Vienna: i paesi che aderiscono all’Opec e la Russia (che rappresentano il 60 per cento della produzione mondiale di greggio) hanno deciso di prolungare fino alla fine del 2018 i tagli alla produzione, in modo da sostenere il rialzo dei prezzi, arrivati ai massimi degli ultimi due anni. Tutti insieme non dovranno estrarre più di 1,8 milioni di barili al giorno. Nel concreto, c’è stato un prolungamento dei tagli per altri 9 mesi, decisi per la prima volta nel novembre scorso, così come si attendeva il mercato: non per nulla, nei giorni scorsi c’era stata una fiammata delle quotazioni, con gli investitori che avevano scommesso sul risultato positivo del vertice di Vienna.
Ancora più interessante è la ricaduta politica dell’accordo. La Russia di Vladimir Putin, di fatto, ha vinto due volte. Grazie alla sua posizione di terzo produttore al mondo di petrolio (dopo l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti), è ormai determinante per chiudere qualsiasi tipo di accordo sulla limitazione delle quote. Il secondo punto sul quale si misura il successo del Cremlino è soltanto all’apparenza tecnico: i ministri dell’energia presenti a Vienna hanno concordato che fra sei mesi ci sarà una revisione dell’accordo per riequilibrare il rapporto tra prezzi e quote di produzione.
È un punto su cui la Russia ha insistito molto e il fatto che sia stato inserito nell’accordo dimostra una volta di più il suo peso politico. Ma cosa significa? In pratica, se fra sei mesi le quotazioni del greggio dovessero salire oltre le previsioni, potrebbe essere autorizzato un aumento della produzione per “raffreddare” i prezzi, ma allo stesso tempo incrementare il livello delle entrate che derivano dalla vendita di materia prima.Perché l’accordo sulle quote, in realtà, potrebbe rivelarsi alla lunga anche controproducente. Molti analisti hanno sottolineato come un eccessivo rialzo dei prezzi possa portare con sé una serie di controindicazioni negative per la “strana coppia” Opec- Russia. Se il greggio dovesse arrivare a una quotazione sui mercati tra i 70 e gli 80 dollari questo avrebbe come conseguenza di rimettere in gioco alcuni produttori che avevano fermato gli impianti perché non più redditizi. Facendo tornare sul mercato quote di petrolio in grado di spingere i prezzi al ribasso. Ma, soprattutto, potrebbe derivarne un beneficio per i produttori americani di shale oil, il greggio estratto dalle rocce grazie a tecniche invasive che consentono l’estrazione attraverso l’iniezione di getti d’acqua e acidi nel sottosuolo.I produttori Usa rappresentano il nemico più pericoloso per i russi e i sauditi. Sono stati quest’ultimi a scatenare la guerra dei prezzi ormai tre anni fa cominciando a pompare petrolio a livelli record per far abbassare i prezzi e mandare in crisi gli operatori americani. Risultato ottenuto solo in parte e solo per un breve periodo: le società di shale oil si sono dimostrate “resilienti” e grazie alla particolare legislazione Usa sui fallimenti, i debiti sono rimasti alle banche mentre gli operatori sono potuti ripartire con nuove società non appena la strategia saudita ha mostrato la corda e i prezzi sono risaliti.
«I paesi dell’Opec così come la Russia – spiega Massino Nicolazzi, docente di Economia delle fonti di energia all’università di Torino – non hanno ancora capito quale sia la quota di mercato che potrebbe andare ai produttori Usa: perché è vero che le estrazioni di shale oil sono ripartite quando il greggio è tornato sopra i 40 dollari, ma ora che i prezzi sono sopra i 60 dollari non c’è stato il boom atteso. Ma cosa potrebbe accadere se i prezzi salissero ancora?» È questa la vera incognita ed è per questo che i russi hanno preteso un tagliando all’accordo.