La Stampa, 30 novembre 2017
Modernità e tradizione in una coda alla vaccinara
Modernizzare la tradizione può produrre qualche apprezzabile risultato di gusto o rappresenta soltanto una valvola di sfogo creativo per cuochi a corto di idee? Per ragionarci ho confrontato, nelle migliori tavole di Roma, sei varianti diverse della «vaccinara»: uno stracotto di coda di bovino, pomodoro e sedano abbondante. Ho bandito i piatti «scomposti» e le versioni «alleggerite», ma non l’utilizzo appropriato di questi concetti. I ricettari ottocenteschi avevano già voluto imborghesire questo piatto di risulta, suggerendo di separare carne e sedano in due tegami: raffinatezza alquanto inverosimile tra i macellai rinascimentali, che sobbollivano coda e verdura, in quantità pari per peso, per molte ore a fuoco lento. E proprio la salsa lucida e delicata, generata dal sedano in simultanea cottura, ha fatto la differenza tra i campioni della mia prova. Inoltre la violenta rosolatura iniziale del bovino, con successiva asciugatura dei pezzi, è stata da alcuni perfezionata dalla continua rimozione del grasso affiorante nel tegame. E, visto che il sego stracotto offre inutile grevità al fegato e al palato, questi assaggi sono risultati i più appaganti. Curiosamente ho poi scoperto che i campioni di sapore, il rispetto della ricetta secentesca e la moderna sgrassatura, convivevano nel piatto dello stesso ristorante, perché la cucina è frutto di rispetto ma anche di passione, intelligenza e evoluzione: e da Enzo ai Vascellari ci sono tutte e quante.
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