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 2017  novembre 29 Mercoledì calendario

Il Papa pensa ai Rohingya ma non li cita

Nay Pyi Taw Non nomina espressamente i Rohingya, ma larga parte del suo discorso tocca temi che li riguardano. «Il futuro del Myanmar – dice – dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità». Sono «parole chiarissime», commenta non a caso L’Osservatore Romano.
Francesco prende la parola dopo Aung San Suu Kyi, per il suo discorso pronunciato davanti alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico del Myanmar, nell’International Convention Center di Nay Pyi Taw, la capitale del Paese, seconda tappa del suo viaggio nell’ex Birmania. Non cita la parola Rohingya, il nome della minoranza musulmana che ha subìto una dura repressione dai militari con oltre mezzo milione di persone fuggite in Bangladesh, non soltanto per rispetto delle autorità del Paese che leggerebbero la cosa come un endorsement alla causa del popolo della regione del Rakhine, ma insieme per la consapevolezza, più volte espressa anche dal premio Nobel per la pace, che le minoranze che soffrono nel Paese sono diverse. «Il nostro governo vuole fare emergere la bellezza della nostra diversità e di rafforzarla, proteggendo i diritti, incoraggiando la tolleranza e garantendo la sicurezza a tutti», dice non a caso Aung San Suu Kyi che già aveva incontrato Francesco in Vaticano il 4 maggio, quando Santa Sede e Myanmar annunciarono l’inizio delle relazioni diplomatiche.
A Nay Pyi Taw i militari fanno i padroni di casa, accompagnando il vescovo di Roma nei due colloqui privati sui quali verte l’attenzione di tutta la comunità internazionale, Cina compresa: ieri il Global Times, la testata nata da una costola del Quotidiano del Popolo, ha dedicato alla visita del Papa la notizia d’apertura. Per Francesco, prima quindici minuti nel palazzo presidenziale col presidente Htin Kyav, poi ventitré con la “Signora” che lo accoglie con un leggero inchino e dicendogli in italiano: «Grazie per essere venuto da noi». Le minoranze, compresi i Rohingya, sono il tema dei colloqui nonostante la prudenza mostrata in pubblico. Anche Aung San Suu Kyi, vestita in azzurro, è attenta a non citarli direttamente nel suo discorso ufficiale pur facendo riferimento alla «situazione nel Rakhine»; si tratta, dice, di «questioni di lunga data, sociali, economiche e politiche, che hanno eroso la fiducia e la comprensione, l’armonia e la cooperazione, tra le diverse comunità». Francesco esprime «apprezzamento per gli sforzi del governo nell’affrontare questa sfida», ma ricorda che «l’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani».
Il tentativo dei militari è di mostrare un volto del Paese pulito e immacolato. Come riporta Fides, l’anziano generale Min Aung Hlaing ha detto l’altro ieri durante il suo colloquio privato col Papa a Rangoon che «non ci sono discriminazioni religiose ed etniche nel Paese». Eppure, la situazione non è ancora risolta. I dissidi interni esistono. Non a caso, i monaci buddisti nazionalisti hanno criticato pesantemente l’arrivo di Francesco per le parole usate in passato in favore degli stessi Rohingya. Mentre la libertà di stampa non è del tutto garantita: una giornalista malese e un cameramen di Singapore sono stati arrestati in queste ore perché cercavano con un drone di osservare dall’alto la sede del Parlamento di Nay Pyi Taw, edificio da sempre – a eccezion fatta per ieri – inaccessibile ai media.