Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  novembre 28 Martedì calendario

Nella valle del Monviso tra i cinesi «spaccapietre»

Un tempo era Comba, ora è Hu il cognome più diffuso ai piedi del Monviso. Segno evidente della diffusione inarrestabile nella comunità cinese nella valle: in appena dieci chilometri che vanno da Barge a Bagnolo, tra le provincie di Cuneo e Torino, i cinesi sono più di sei mila. È la seconda comunità cinese in Europa per densità rispetto alla popolazione locale.
Una presenza non casuale: qui si estrae e si lavora la “pietra di Luserna”, una pietra antica dai riflessi verde-azzurri, che riveste le dimore svizzere di magnati arabi e russi, la Mole Antonelliana, ma anche la pavimentazione del nuovo Museo Louvre di Jean Nouvel, appena inaugurato ad Abu Dhabi.
L’oro grigio – così la chiamano nella valle – viene estratto nelle cave in montagna e poi lavorato in pianura dove si fa lo “spacco”. La pietra è “addomesticata” a mano, a colpi di scalpello per ricavarne lastre e sampietrini. E all’aria aperta, d’estate come d’inverno, con i rischi per la salute che ne conseguono per le polveri che gli scalpellini respirano durante lo “spacco”.
«Trent’anni fa – spiega il vicesindaco di Bagnolo, Mara Maurino – nessun italiano voleva dedicarsi più a questo mestiere».
Così iniziarono ad arrivare immigrati di ogni nazionalità, ma reggevano un mese o due. Troppa fatica, troppo sacrificio. Finchè a Barge non è arrivato uno scalpellino cinese, Deng Lunqiao, detto “Franco”, 54 anni. Era il 1994. Una manciata di chilometri più in là, a Bagnolo, dicono che in realtà loro di cinesi ne avevano due già nel 1993. Ma Franco Deng, nel suo italiano stentato, è irremovibile: «Sono arrivato per primo. Due anni dopo con il ricongiungimento famigliare è arrivata mia moglie. Dopo di me sono venuti in tanti».
Il passaparola da allora è diventato inarrestabile e ha fatto piovere sulla zona seimila connazionali, tutti provenienti da Yuhu, un minuscolo villaggio di cavatori nello Zhejiang, regione della costa orientale della Cina.
Anche grazie alle loro braccia il distretto è decollato. Dal 1997 al 2007 nelle cave a monte di Bagnolo la pietra estratta per lo spacco è raddoppiata: da 200mila a 400mila tonnellate l’anno. Il fatturato delle ditte è lievitato a una media annua dell’8 per cento, un business di almeno 70 milioni di euro secondo una stima della comunità montana di Val Pellice.
Dal 2007, dopo la crisi che ha investito il settore dell’edilizia, i numeri si sono ridimensionati ma restano importanti. Oggi siamo intorno a 300mila tonnellate di pietra estratta all’anno.
Questo ha avuto delle ripercussioni anche sulle rendite del Comune di Bagnolo (che detiene l’80% di estrazione della pietra di Luserna) che incassa i diritti di estrazione, gli affitti delle cave e trattiene il 70% dell’imposta regionale. Se le rendite per il Comune erano lievitate a 2 milioni e 400 mila euro nel 2007 (dai 960 mila euro del 1997) oggi siamo attorno a un milione e 800 mila.
«Sono grandi lavoratori – conferma il presidente dell’Unione cavatori Mauro Camusson – persone tranquille, silenziose».
I contatti con la popolazione italiana sono limitati, la diffidenza è una pietra non facile da smussare.
Quando gli si chiede come mai, dopo più di vent’anni in Italia, non parli bene la nostra lingua Deng si giustifica dicendo che non ha mai avuto tempo per studiare.
I cinesi inoltre non hanno mai fatto “il salto” di qualità, restano scalpellini, operai. Le licenze per estrarre restano saldamente in mani italiane, anche se gli italiani temono che i cinesi rilevino le aziende con concessione. Per ora nessuno di loro ha chiesto l’autorizzazione comunale a estrarre nelle cave, una sessantina nell’intero comprensorio, ma potrebbe accadere presto. Per ora anche l’apertura di un proprio laboratorio resta una strada in salita. Deng ad esempio aveva aperto una sua attività, la Franco Deng snc, ma le cose non sono andate bene e lui è tornato a lavorare come scalpellino per altri.
Alla fine, come è accaduto ai piemontesi, a tradirli saranno i figli. Oggi hanno ambizioni diverse dai loro padri.
«Non vogliono più lavorare la pietra – conferma Deng – perchè è troppo faticoso». Molti lavorano nei bar e nei ristoranti, altri lasciano le valli e vanno a Torino. Come Huang Zaitong, detto Zack, che ha 22 anni e le idee chiare: non vuol saperne di fare il mestiere di suo padre. Lo ha visto per anni spaccare le pietre di giorno e montare pezzi nel laboratorio di famiglia di notte, con la tosse che lo tormentava.
Zack di giorno studia e di sera lavora in un bar per realizzare il suo sogno: «Finire ingegneria e progettare videogiochi».
Anche i figli di Deng hanno voltato le spalle al loro destino. Hanno 31 e 33 anni e lavorano entrambi in un negozio. Quando chiedo a Deng chi spaccherà la pietra quando lui e gli altri della sua generazione saranno troppo anziani per farlo il primo cinese di Barge allarga le braccia e sorride.
«Una volta erano gli italiani. Oggi noi e in futuro ci sarà qualcun altro. C’è sempre chi ha bisogno».