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 2017  novembre 26 Domenica calendario

Luigi Rossi di Montelera: «Mi opposi perché era la rivolta antisistema di una minoranza»

«Potrebbe sembrare una rivoluzione violenta, in realtà è stata molto civile. Certo, qualcuno di noi si è preso qualche botta, ma non ci sono stati né morti né feriti. Il radicale cambiamento è avvenuto in seguito, con la nascita di Potere Operaio e Lotta continua, con i primi gruppi armati». Almeno su un punto, anche chi 50 anni fa stava dall’altra parte della barricata è d’accordo. Luigi Rossi di Montelera, un passato di dirigente d’azienda e di deputato nelle file della Dc, nel ’67 era tra gli studenti (si sarebbe laureato, in giurisprudenza, due anni dopo) che si battevano per ottenere la ripresa della normale attività didattica.
Contestavate i contestatori, perché?
«Il cosiddetto Movimento ha avuto il merito di rompere certe prassi – le baronie universitarie, le situazioni di puro arbitrio da parte dei docenti -, ma il nocciolo della contestazione era ideologico: era il rifiuto delle istituzioni, dei concetti di autorità e disciplina, di tutte quelle regole morali e giuridiche su cui si basava e si basa la nostra società civile. Era un movimento antisistema e nichilista che puntava su un esasperato individualismo in cui ciascuno può fare ciò che gli pare».
Più nel dettaglio?
«Io sono stato l’ultimo presidente dell’Interfacoltà, il parlamentino di 50 rappresentanti eletti dagli studenti che, prima, era la sede del dibattito. Con l’occupazione, questa assemblea venne sciolta e sostituita da comitati rivoluzionari autoproclamati, espressione di una minoranza che si imponeva con la forza. Era la rottura del principio democratico di rappresentanza».
Come vi opponevate?
«Con i vecchi gruppi universitari, ancora vivi fino alla fine del ’67, costituimmo la Confederazione studentesca: era uno schieramento abbastanza vasto, ne facevano parte i Goliardi indipendenti, di ispirazione liberale, i socialdemocratici, i cattolici di Intesa, i filomonarchici di Viva Verdi, di cui io ero il presidente. Ci collegammo con altri movimenti di opposizione alla contestazione in tutta Italia, e poi anche in Europa, organizzammo manifestazioni – in qualche caso sfociate, a Torino per esempio, in veri e propri scontri -, inviammo una petizione al Presidente della Repubblica Saragat chiedendo il ripristino della legalità. A un certo punto riuscimmo perfino a disoccupare Palazzo Campana».
In che modo?
«Avevamo indetto una grande manifestazione in piazza Carlo Alberto, per una volta la “maggioranza silenziosa”, di fronte alla gravità della situazione, era arrivata in gran massa. Penetrammo dal cortile, c’era una porticina che dava sull’anticamera dell’aula magna dove erano asserragliati gli occupanti. La aprimmo, avevano eretto una barricata con le sedie. Parlamentammo un po’, io e Luigi Bobbio, con la barricata in mezzo. Quando notificammo che eravamo più numerosi di loro la tolsero, così potemmo entrare e riaprire l’università. Per un mesetto i corsi ripresero, fino a quando in primavera ci fu una nuova assemblea, in cui noi eravamo minoritari, che decretò la rioccupazione».
I professori non vi appoggiarono?
«Il loro atteggiamento mi lasciò l’amaro in bocca. Indubbiamente avevano una responsabilità in quello che stava succedendo, perché il comportamento di una parte del corpo docente, con punte di arbitrio, mancanza di rispetto, a volte anche pesante maleducazione, ha contribuito a creare un clima esplosivo. Poi la scintilla dell’ideologia ha dato luogo all’esplosione. Eppure, a parte i pochi coraggiosi che osarono fronteggiare gli occupanti – come il sindaco Giuseppe Grosso, professore di diritto romano -, la stragrande maggioranza evitò di schierarsi. Poi c’erano quelli che aderirono alla contestazione: i più ideologicamente schierati – come Norberto Bobbio, da me molto stimato, che non condivideva le posizioni del figlio e aveva un alto senso delle istituzioni – ma anche altri meno schierati che al momento buono avevano scelto la linea vincente, o che sembrava tale. Alcuni di questi facevano “lezioni rivoluzionarie”, con gli studenti che interagivano nell’insegnamento. E anche noi partecipammo».
Alle lezioni rivoluzionarie?
«Prendevamo la parola, interrompevamo di continuo, contestavamo. E loro impazzivano perché non capivamo chi eravamo. Qualche soddisfazione ce la siamo presa».