Libero, 25 novembre 2017
Pino Motta: «Vi racconto il campionato a zero punti. Tra iella e farsa noi le perdemmo tutte»
«Certo che la domenica guardo cosa fa il Benevento. E faccio il tifo per loro, perché io ai record ci tengo». Parola di esperto, un esperto che viene da un parquet di basket, ok, non da un campo di calcio: però Pino Motta, 56 anni, sa benissimo cosa significa vivere a zero punti, la condizione in cui la matricola campana si trova ormai dal 21 agosto.
Era lui, Motta, il capitano dell’Irge Desio, la squadra passata alla storia per essere rimasta al punto di partenza in un massimo campionato, e tra l’altro in quello che, fuori dall’universo calcio, è senza dubbio il più importante torneo di squadra nazionale. Stagione sportiva 1989/90, Serie A1, la Milano di D’Antoni e McAdoo campione d’Italia. Per l’Irge, trenta partite e trenta sconfitte. Vero, nel basket non c’è il pareggio. Però. «Eppure mi sono divertito, giuro, almeno fino a metà campionato. Poi diventò una farsa, tra sfortuna, fughe e decisioni prese sull’onda della disperazione ci ritrovammo in situazioni al confine dell’assurdo».
Allora via, dito sul tasto rewind. «Eravamo per la prima volta in A, proprio come il Benevento, l’anno prima vincemmo la Serie A2 spaventando nei playoff proprio la grande Milano. Ma la squadra venne smontata dal mercato, i giocatori partiti sostituiti da elementi che in altre formazioni non potevano ambire al quintetto. Ci si mise anche il calendario, che in avvio ci propose tutte le big. Con Livorno perdiamo ai supplementari, con le altre ko con scarti limitati. Poi, succede di tutto». Cosa, nell’ordine: «Infortuni. Cambio di allenatore. Americani andati via. Il patron del club, Celada, e i dirigenti vengono travolti e per noi è il caos. Ricordo un allenamento in cui ci troviamo in palestra due americani, un russo e un brasiliano, e gli stranieri tesserabili sono solo due. Sembra una barzelletta». In un altro allenamento, poco dopo sbuca un altro americano, piccolo di statura e inconfondibile. «Arriviamo e in campo c’è Dan Peterson. La società gli aveva chiesto aiuto, e non proprio gratuitamente. Ha fatto due sedute e ha preso una cifra che non è pubblicabile. Effetto nullo, ovviamente. A me più che altro era sembrato di stare dentro una telecronaca».
E sempre dal mondo a stelle e strisce, già a metà campionato e con quello zero che diventava sempre più grande, dall’olimpo Nba piomba su Desio una stella vera, Mike McGee, compagno di squadra di Magic Johnson, Karim-Abdul Jabbar nei Los Angeles Lakers dello “Showtime”, forse la cosa più grande mai vista su un parquet. L’esatto contrario dell’Irge, insomma. «Capì di trovarsi in una squadraccia, giocava per se stesso, tirava e basta, segnava valanghe di punti e noi perdevamo lo stesso. In una partita fece 35 tiri da tre. Lui. Si fanno in una partita e mezzo, due, ma intendo di squadra. Poi scopriamo la verità: per contratto viene pagato a punti. Contro il Messaggero Roma non torna neanche a difendere, aspetta la palla a metà campo. Lo vado a prendere per gli stracci: «Negro di m..., guarda che abbiamo la maglia dello stesso colore». Succede un casino, ma non con lui: Celada mi multa per due milioni. Per lettera, perché aveva paura della mia reazione. Ma chi si ribella è McGee. “Non devi pagare”, e dice al presidente che avevo ragione. Quasi amici, insomma». A tre partite dalla fine, McGee ritorna in America: «Disse che stava malissimo sua cugina, doveva assisterla. Poi dopo qualche giorno scopriamo che sta giocando i playoff Nba con i Phoenix Suns». E intanto, la “farsa” termina con qualche comica finale, tipo l’entrata gratis per tutti al Palalido di Milano dove l’Irge era emigrata e un tentativo di vendetta personale durante un match, con un giocatore che rincorre in tribuna il tifoso che l’ha insultato per tutto l’anno. «Ma alla fine è stato comunque bello, una vetrina, io per esempio rimasi ancora in A con Torino, e di quella squadra, di quel campionato si parla ancora oggi».
Chissà se si sono pentiti all’Irge, visto che con notevole faccia tosta a dispetto del grande richiamo ottenuto dalle imprese alla rovescia del team l’azienda sponsor fece causa al club per danno d’immagine. E il pretore, almeno inizialmente, diede pure ragione all’Irge. «C’è una cosa che ammiro in questo Benevento, ed è che fino a questo momento tutti, dalla società ai giocatori, e specialmente i tifosi, stanno gestendo e vivendo questo flop con misura, calma e immutato entusiasmo. Anche per questo faccio il tifo per loro. E soprattutto perché dopo quell’anno incredibile, e tutte quelle storie assurde, io al mio record ci tengo. Forza Benevento».