Il Messaggero, 25 novembre 2017
Il medico della morte che infettò Dachau
Quando, il 29 Aprile 1945, gli americani liberarono il campo di concentramento di Dachau, trovarono l’inferno nell’inferno. Non solo cataste di cadaveri e resti umani inceneriti, quelle le avevano già viste a Ohrdruf e a Buckenwald, ma un vero e proprio laboratorio infermieristico per esperimenti clinici sui detenuti. Ad Auschwitz, da tempo liberata dai russi e ancora tenuta segreta, aveva operato il lugubre dottor Mengele: ma si era trattato di crudeli dilettantismi condotti da un praticone sanguinario. A Dachau, invece, questa turpitudine aveva assunto il connotato di un metodico programma di lavoro. Il suo direttore era un professore universitario di settantaquattro anni, dal portamento fiero e dallo sguardo autorevole. Le sue pubblicazioni sulle malattie tropicali erano note in mezzo mondo. Il suo nome era Claus Karl Schilling.
Accanto a lui lavoravano altri specialisti, dediti a vari tipi di sperimentazioni. Alcuni detenuti venivano immersi in acqua gelida, per simulare l’assideramento dei piloti caduti in mare. Molti morivano, altri venivano recuperati con bagni caldi o, come suggeriva il dottor Rascher, attraverso il contatto umano: collocando due donne accanto al paziente, questo talvolta riprendeva i sensi – annotava diligentemente il medico – dando anche segni di soddisfazione sessuale. Altri sfortunati venivano introdotti in stanze depressurizzate, finché gli scoppiava il cervello. Altri infine venivano mutilati e sezionati, mentre erano ancora in vita. I documenti e i reperti venivano rigorosamente documentati e inviati alle università.
SOFFERENZE ATROCI
Ma il dottor Schilling assisteva a queste prove con moderato interesse, limitandosi a dare consigli marginali. La sua specialità era infatti un’altra: infettare persone sane con bacilli di febbre tifoide, parassiti della malaria e altre patologie, per osservarne l’evoluzione da vicino. Ad alcuni somministrava medicine in dosi ridotte, e questi morivano in due settimane tra sofferenze atroci. Ad altri dava dosi esagerate e questi, più fortunati, morivano in poche ore. Trovata la posologia giusta, e preso atto che il paziente era guarito, poteva tranquillamente rispedirlo al lavoro, dove la fatica, il freddo e la fame avrebbero fatto quello che non era riuscita a fare la febbre malarica. Con questi metodi, Schilling infettò più di mille persone: cinquecento morirono durante la cura, le altre finirono nei forni crematori. Ma qualcuno sopravvisse, e testimoniò al processo.
L’ACCUSA
Questo iniziò il 13 Novembre 1945, una settimana prima di quello più noto svoltosi a Norimberga. Era la prima volta che una Corte, composta esclusivamente di ufficiali americani, giudicava criminali nazisti. Il pubblico accusatore, il colonnello William Denson, era un avvocato di trentadue anni che, come tutti, non aveva alcuna esperienza di reati del genere. Visitando Dachau, la sua fede sulla bontà della natura umana e sulla giustizia retributiva aveva vacillato. Aveva visto troppi morti innocenti e tanti assassini in libertà. Tuttavia, passato lo smarrimento, si dedicò al nuovo compito senza astio e senza mezzucci sleali. E in un mese raccolse le prove sufficienti per mandare a giudizio il dottor Schilling con 39 coimputati.
I giudici erano otto ufficiali superiori. Il presidente, il generale Lentz, era un buon giurista, anche se non aveva l’esperienza specifica dei magistrati di Norimberga. Diresse il dibattimento con competenza e imparzialità. Anche i difensori, tranne uno, erano militari americani. Tutti sostennero le tesi che sarebbero state riproposte nei vari giudizi successivi: l’irretroattività della legge penale, la genericità delle incolpazioni, la scusante dell’ubbidienza agli ordini. E mentre a Norimberga il tempo passava ascoltando centinaia di testi e leggendo migliaia di documenti, qui si arrivò rapidamente alla conclusione. Fu un esempio di efficienza senza ingiustizia: i testi a difesa furono più numerosi di quelli di accusa.
Il 14 Dicembre 1945 la Corte si ritirò per decidere. Dopo soli 90 minuti uscì con il verdetto: gli imputati erano tutti riconosciuti colpevoli. La sentenza, con le relative pene, sarebbe stata letta il giorno successivo. Nessuno si aspettava clemenza, e clemenza non ci fu. L’indomani il presidente lesse la condanna di morte per impiccagione con queste motivazioni, le prime a stabilire un principio che ancor oggi costituisce un precedente del diritto internazionale: «Quando uno Stato si mette al di sopra delle leggi ragionevolmente riconosciute, o trascende i costumi civilizzati del comportamento umano, gli individui che mettono in pratica queste politiche sono responsabili di violazioni delle leggi dell’umanità. E chi esegue l’ordine criminale è responsabile come chi lo impartisce».
Il dottor Schilling e gli altri condannati inoltrarono invano domanda di grazia, e il 28 maggio 1946 l’anziano professore salì al patibolo. L’esecuzione fu filmata, ed ancor oggi è visibile nei vari siti: il condannato rifiuta con fermezza i conforti religiosi e muore con dignità. Forse l’unica che ebbe nella sua vita sciagurata.
LA SERIE
Il processo di Dachau fu dunque il primo di questa serie, che sarebbe proseguita a Norimberga nei confronti dei superstiti capi nazisti e di altri funzionari minori. Furono giudicati altri medici, ed emersero particolari ancora più raccapriccianti, con l’esibizione di macabri reperti di teste rimpicciolite dagli acidi, cervelli sezionati incapsulati in teche di vetro, ed altre indescrivibili atrocità. Poi il tempo, la stanchezza, e il nuovo clima politico esaurirono questa esperienza giudiziaria. Gli inglesi avevano già chiuso la partita, e i russi non l’avevano mai cominciata: avevano sommariamente giustiziato migliaia di prigionieri, e altrettanti ne avevano arruolati per sfruttarne le competenze di assassini e torturatori: nei gulag di Stalin servivano le esperienze dei lager di Hitler.
Questo processo – come quelli successivi anche recenti – non ha certo risolto e nemmeno ridotto le tendenze criminali di una parte dell’umanità. Tuttavia ha dimostrato, ancor più di quello di Norimberga, la grande dignità etica di un sistema giudiziario liberale. Il dottor Schilling e i suoi compari erano rimasti stupiti di potersi scegliere un difensore di fiducia, addirittura pagato dai vincitori. Quelli che accettarono le difese di ufficio, lo furono ancora di più. L’unico momento di umanità che dimostrarono in quelle quattro settimane fu quando strinsero commossi la mano dei loro avvocati, uomini in divisa che fino a ieri erano stati loro mortali nemici, e che si erano battuti in nome della legalità, anche se questa si applicava a dei mostri, o forse proprio per quello. Prima di sciogliere la compagnia, il Presidente Lentz organizzò una cena con giudici, accusatori e difensori. Tutti si strinsero la mano, perché ognuno aveva svolto, al meglio, il proprio dovere. Il commento più bello fu di un soldato semplice: Ora sappiamo perché abbiamo combattuto.