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 2017  novembre 25 Sabato calendario

Partiti e casse vuote. Un rebus chi paga la cambagna 2018

Il conto alla rovescia per le urne è già cominciato. Abbiamo faticosamente approvato una nuova legge elettorale, si discute di alleanze e liste, ma tutti trascurano un problema essenziale per la nostra democrazia: chi e come finanzierà la campagna elettorale? Quello del 2018 infatti sarà il primo voto senza contributi pubblici e nei conti dei partiti c’è un enorme buco nero, da colmare nel giro di pochissimi mesi. Servono soldi, e tanti, per manifesti e siti web, per spot e cene, per comitati e spin doctor, insomma per tutti gli strumenti antichi e moderni, fisici o digitali, della competizione che deciderà il diciottesimo parlamento. Lo scenario è semplice ed inquietante. Nel 2013 i partiti – M5S escluso – hanno affrontato i seggi contando su 88 milioni; lo scorso anno invece ne hanno raccolti 38. Adesso devono riempire la cassa in fretta. Nessuno ha in mano previsioni attendibili, ma proprio per effetto del Rosatellum e del nuovo meccanismo dei collegi le spese potrebbero decollare. C’è chi pensa servano almeno 50 milioni, chi fa stime addirittura più alte. E l’intera questua rischia di avvenire senza regole che permettano ai cittadini di capire da dove arriveranno quei quattrini: nessuno saprà con chiarezza chi ha sovvenzionato l’ascesa del prossimo governo. 
Poveri partiti: per quarant’anni si erano abituati a una pioggia di capitali, cresciuta senza sosta. Una situazione paradossale. Più apparivano in crisi, più crollava il tesseramento, insomma più diventava debole il loro rapporto con la società, più aumentavano le elargizioni di Stato. Grazie meccanismo diabolico dei rimborsi, dal1993la Seconda Repubblica ha inondato la politica di denaro: due miliardi di euro in vent’anni, a fronte di spese elettorali certificate per circa 700 milioni. Guadagni sicuri che avevano foraggiato apparati obesi, con sedi di lusso, folle di dipendenti, giornali, canali tv e una lunga coda di intrallazzi nazionali o regionali, dalla jeep di Franco “Batman” Fiorito alle ville di Luigi L usi. Poi nel2012l’ondata anti-casta ha convinto il premier Mario Monti a mettere a dieta stretta i partiti. n suo successore Enrico Letta è andato oltre e ha deciso di cancellare il finanziamento pubblico. 
Quella di Letta era una vera sfida: «Ora tutto il potere è ai cittadini». Già, perché sarebbe toccato a loro sostenere i movimenti e pagare per le campagne. E i partiti avrebbero dovuto impegnarsi per recuperare credibilità e risorse. Ma in 4 anni hanno fatto poco o nulla per incrementare le entrate. Il tesseramento langue. L’esempio del Pd testimonia la crisi. I democratici due anni fa vantavano il record, con circa 400 mila iscritti, ma la quasi totalità delle quote rimaneva alle federazioni locali: in via del Nazareno sono arrivati 202 mila euro. n 2016 invece è stato drammatico con solo 13 mila euro alla voce tessera ti, una miseria. 
Non va meglio sul fronte delle donazioni di imprese e privati, pur favorite da una significativa detrazione fiscale: per le ultime elezioni vennero donati complessivamente 40 milioni, lo scorso anno appena 12. È poca cosa persino l’estremo aiuto statale, concesso attraverso il2 per mille: nel 2016 soltanto due italiani su cento hanno scelto di destinarlo ai partiti, con un totale di 11 milioni e 700 mila euro. Il risultato? Pd ha chiuso con 9 milioni e mezzo di perdite. Forza Italia invece è in attivo ma registra 100 milioni di debiti, novanta dei quali nei confronti «del presidente Silvio Berlusconi». 
Insomma, la macchina elettorale che sta scaldando i motori è   a corto di benzina. Dove andranno le segreterie a cercare le sovvenzioni che lo Stato non garantisce più? L’unica certezza è che siamo entrati in un sistema plutocratico. «La fine dei fondi pubblici crea un deficit di democrazia, perché determina una potenziale privatizzazione della politica», sintetizza la professoressa Daniela Picci, che ha coordinato un saggio con gli studi di più docenti, in uscita per Carocci. Una tesi cara a Nadia Urbinati, della Columbia University: la politica in appannaggio di chi ha risorse crea diseguaglianza. E rende più facile «Convertire il potere economico in potere politico». Ovvio pensare a Berlusconi che dal2008 ha tirato fuori 130 milioni per spingere Forza Italia. La deregulation però sta creando un cambiamento più profondo, che va oltre l’anomalia del partito-azienda del Cavaliere. 
Il primo effetto concreto è il proliferare delle fondazioni, diventate protagoniste del dibattito e delle risorse. Nel 2005 se ne censivano 65, sei anni dopo 105. Più di un terzo fa riferimento alla politica. E ogni leader, piccolo o grande, ne ha aperta o ispirata una: da Matteo Renzi a Maurizio Lupi, da Massimo D’ Alema ad An· gelino Alfano. Li chiamano think tank ma, come spiega il professar Mattia Diletti, non producono pensiero: non offrono idee, né competenze. In Europa, dalla Thatcher a Blair, da Zapatero a Macron, questi organismi sono serviti per definire l’agenda di governo e le squadre di specialisti per concretizzarla. In Italia, invece, le varie Leopolde forniscono «valori pret-a-porter: garantiscono una costruzione ideologica fai-da-te e una base programmatica minima per il leader». 
Poche idee, molti quattrini. Decine di inchieste giudiziarie le mostrano come calamite di soldi: la scorciatoia ideale per aiutare in modo più o meno lecito i candidati. Pochissime pubblicano bi· lanci, quasi nessuna fa luce sui nomi dei benefattori: «Ce lo impedisce la privacy», rispondono in coro. Tra gli sponsor degli eventi spesso compaiono i loghi di società pubbliche, segnalando un altro pericolo: un mercato delle poltrone, con il cortocircuito tra i contributi e le future nomine dei manager. 
Ma è difficile, se non impossibile, che oggi le casse delle fondazioni possano rimpiazzare quelle dei partiti. Prendiamo la campagna per il referendum dello scorso dicembre, analizzata in un report del centro studi Openpolis. Il comitato promotore ha ricevuto mezzo milione dallo Stato; il Pd nazionale ci ha messo 11,5 milioni; altri 2 milioni e 200 mila euro i gruppi parlamentari democrat e 256 mila euro la fondazione Eyu del Nazareno mentre Open di Matteo Renzi si è limitata a 243 mila euro. In quattro anni la creatura del Giglio magico ha incamerato 4 milioni in tutto: troppo pochi per promuovere i disegni nazionali dell’ex premier. È l’esempio che cita il professar Diletti per teorizzare come le fondazioni servano solo «a sostegno di singoli leader e all’organizzazione delle loro macchine politiche individuali». Stipendiano gli staff del “capo”, sono i suoi megafoni personali verso i media. E -sottolinea il docente- «CO· struiscono le relazioni con i gru ppi d’interesse nei settori di politica pubblica nei quali è attore». Patti destinati a rimanere nell’ombra. 
Quella che scatterà per le prossime elezioni è una corsa all’oro che somiglia al far west, senza legge e neppure sceriffi. C’è un unico steccato: sono vietate donazioni superiori ai 100 mila euro. Berlusconi lo ha già scavalcato, dividendo i bonifici tra congiunti e manager del gruppo o saldando le fidejussioni di Forza Italia. Quanto a trasparenza, poi, nemmeno i Cinquestelle brillano perché nonostante il rigore formale delle dichiarazioni è impossibile far luce sui sostenitori, in gran parte anonimi o omissati per privacy. L’opacità è ovunque: non c’è modo di identificare chi finanzierà movimenti e leader, perché gli organismi di controllo sono deboli e lenti. La vigilanza spetterebbe soprattutto alla Commissione di garanzia delle Camere: creata proprio per monitorare i bilanci dei partiti, è stata poi caricata di altri compiti, con trafile burocratiche surreali. L’esito è assurdo: si andrà a votare senza neanche sapere chi ha pagato la campagna precedente. n termine per presentare i rendiconti è stato rinviato di anno in anno e così mancano ancora i documenti sul2013. n guaio è che nel frattempo è cresciuta una selva oscura popolata di pseudo-fondazioni, simil- ong, associazioni e circoli assortiti che fagocitano soldi sfuggendo a qualunque verifica. Dalle associazioni che hanno favorito la vittoria pugliese di Michele Emiliano a quella usata da Giovanni Toti per conquistare la Liguria, dal raggruppamento dei sostenitori di Vincenzo De Luca alla compagine familiare di Luigi De Magistris fino alla pletora di sigle inventate dai candidati sindaci persino nei paesini. Sono la manifestazione estrema di quella “vaporizzazione del finanziamento” che secondo il professore Eugenio Pizzimenti sta modificando le regole del gioco democratico. Non è solo una questione morale, perché nessuno sa chi le paga e con quale tornaconto, ma anche il colpo finale ai partiti e alloro ruolo di corpi intermedi con la società. Come profetizzò un deputato durante il dibattito sull’abolizione dei fondi pubblici: «Si è preferito tagliare la testa piuttosto che curare l’emicrania».