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 2017  novembre 27 Lunedì calendario

Ludovico Einaudi: «Io, papà Giulio, Berio e gli insegnamenti di Italo Calvino»

Ogni giorno suono e cammino, dovunque mi trovi, e ogni giorno cerco di fare entrambe le cose», dice Ludovico Einaudi. Chatwin ci ha insegnato che pensare e camminare sono attività gemelle: ecco perché l’idea di un’intervista “benandante” con Ludovico Einaudi, forse dopo Ennio Morricone il compositore italiano più apprezzato all’estero, assomiglia a un pezzo di musica concreta. Con Einaudi abbiamo attraversato due volte in un’ora l’intero perimetro del Parco Sempione di Milano, in un’assolata mattina di novembre.
Lei è tornato da un tour trionfale negli Usa, ma a dicembre farà un grande regalo concertistico alla sua città.
«L’anno scorso abbiamo fatto una prova con sei concerti: quest’anno ho pensato a una sorta di festival di 10 concerti, per non rischiare di annoiarmi con esibizioni tutte uguali. Ogni sera ci sarà un ospite e il giorno dopo lo stesso artista si esibirà, dopo di me, in uno spazio sottostante, come una sorta di club, in una situazione un po’ più sperimentale, che prevede interazioni alla jam session, comprendendo gruppi e generi musicali dai Blonde Redhead a Jozef van Wissem, che ha collaborato in passato con Jim Jarmoush, rispettivamente al liuto e chitarra elettrica».
Quanto del mondo da cui proviene – suo padre Giulio, l’editore, il nonno Luigi, primo presidente della Repubblica – si porta dietro?
«Per mio padre contava più l’arte della musica e in realtà fu Massimo Mila a introdurre il tema della musica all’interno della casa editrice. Luciano Berio è stato per me di grande stimolo. Amico di Italo Calvino, col quale ebbe poi problemi di collaborazione artistica: l’autore de Le città invisibili si risentì per un eccessivo, a suo parere, rimaneggiamento del testo, che non riconobbe più suo».
Considera Berio il suo maestro?
«Mi ha offerto l’incoraggiamento e la comprensione che non ho trovato in mio padre, che forse non capiva bene cosa stessi facendo.
Come suo assistente mi occupavo delle trascrizioni; ma c’era anche un rapporto di amicizia, quasi padre-figlio: io lo adoravo e lui è stato molto generoso con me. A un certo punto però ho sentito la necessità di staccarmi. Berio scrisse all’epoca un pezzo per le bande, che portammo all’inaugurazione del Canale della Manica, con mille musicisti di banda; mandava me a seguire la preparazione, mentre lui arrivava alla prima. Per me ogni esibizione si traduceva in settimane di lavoro intensissimo e a un mio rifiuto all’ennesima richiesta di andare a seguire un evento in Svizzera lui si risentì. Da allora il rapporto si fece più blando, ma sempre pieno di gratitudine e affetto».
Al di fuori del mondo della musica invece qual è stata per lei una figura importante?
«Ho ricordi bellissimi di Italo Calvino: avevo 8 anni quando mi regalò una pianta grassa spiegandomi che dalle foglie cadute sarebbero nate sempre piante nuove. E quando mi avvicinai alla fotografia, mi regalò un libro di street photography. Lo rividi più avanti, quando scrissi un brano su un testo di Pavese. La sua perdita per me fu di una persona straordinariamente cara».
Quale immagine le è rimasta di Calvino?
«Qualche anno fa rividi sua figlia Giovanna a New York e le raccontai di una foto che immortala me all’età di 10-11 anni, lei di 7 e suo padre Italo, scattata in casa a Torino. È stato uno dei pochi momenti che ho avuto il piacere di condividere con lei dopo tanti anni: insieme al ricordo dell’importanza di suo padre per la mia formazione».