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 2017  novembre 25 Sabato calendario

Con la Russia e contro gli Usa la scelta di campo dei big del petrolio

Milano Il mondo del petrolio ha un nuovo protagonista: la Russia di Vladimir Putin. E la spiegazione è molto semplice: senza il Cremlino, l’Opec – l’organizzazione che raccoglie una parte dei principali paesi produttori – non riesce più a determinare la politica dei prezzi del greggio. Il Cremlino lo sa e ha imparato a usare la sua nuova posizione di forza per consolidarsi nel ruolo di superpotenza energetica. Il che ha sempre ricadute anche sul piano politico.
Per rendersene conto, è sufficiente ricordare cosa è accaduto ieri sui mercati finanziari. Non appena il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak ha fatto capire di essere favorevole a una estensione dei tagli alla produzione di petrolio, le quotazioni si sono impennate. Portando il livello del Wti ( il listino di riferimento sul mercato americano) ai nuovi massimi da due anni a questa parte: a Wall Street, gli scambi si sono chiusi con un rialzo dell’ 1,6 per cento, riportando il prezzo a un passo dai 59 dollari al barile. Sempre più lontano dal minimo storico del febbraio 2016, quando il petrolio precipitato a 25 dollari il barile portò sull’orlo del collasso più di una economia dei paesi emergenti e del Medioriente. E qualcuna anche oltre il precipizio, come nel caso del Venezuela.
Ma cosa ha detto il ministro russo? E per quale motivo ha fatto stappare bottiglie di champagne ai dirigenti delle compagnie petrolifere e agli investitori di Borsa? «L’obiettivo di un ribilanciamento del mercato non è stato completamente raggiunto, così tutti sono favorevoli all’estensione per arrivare all’obiettivo finale e lo è anche la Russia».
Siccome nel prudentissimo mondo del petrolio si parla poco e mai per caso, le parole di Navak sono state immediatamente lette nell’unico modo possibile: il 30 novembre, alla prossima riunione tra paesi Opec e non Opec in programma a Vienna anche la Russia darà il via libera al prolungamento dell’accordo per la limitazione all’estrazione di greggio. Condizione necessaria perché le quotazioni non si deprimano un’altra volta. L’accordo è stato sottoscritto la prima volta nel novembre del 2016 e poi prorogato al marzo 2018. Ora si parla di estenderlo a tutto l’anno prossimo.
Non avranno gioito gli automobilisti, destinati a vedersi rincarare i prezzi di benzina e gasolio già nei prossimi giorni. Ma lo avranno fatto i ministri delle Finanze dei paesi produttori. Negli ultimi due anni hanno dovuto fare i conti con il drastico taglio delle entrate per la vendita di materia prima, causato dalla decisione dell’Arabia Saudita di muovere guerra commerciale al petrolio americano. In particolare, i sauditi hanno tentato – aumentando la produzione a livelli senza precedenti – di far scendere i prezzi provocando il fallimento degli operatori di shale oil americano, il petrolio estratto dalle rocce, il cui boom ha portato gli Stati Uniti all’autosufficienza. Il primo obiettivo è stato raggiunto, il secondo in parte e solo per un breve periodo. Alcune imprese americane hanno portato i libri in tribunale; ma lasciando i debiti alle banche hanno ricominciato da capo con nuovi giacimenti.
A rischiare il fallimento, invece, sono stati i bilanci dei paesi produttori. Da qui l’accordo raggiunto l’anno scorso, sempre con il benestare della Russia: è il terzo produttore al mondo con 11,4 milioni di barili al giorno, dopo Stati Uniti (14,8 milioni)e Arabia Saudita ( 12,4 milioni). Gli americani giocano un altro campionato, gli arabi – pur con l’appoggio di tutto l’Opec – non ce la fanno: per far risalire i prezzi la Russia deve essere d’accordo.