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 2017  novembre 26 Domenica calendario

Il commissario Malagò ha un prezzo da pagare

Qualcuno che conosca i codici per parlare a Giovanni Malagò dovrebbe chiarirgli che non può essere lui il commissario forte, autorevole e soprattutto indipendente che ci si augura in federcalcio. Non siamo più nel 1958 quando toccò al presidente del Coni gestire la ricostruzione dopo il Mondiale fallito. Il calcio oggi è fra le grandi industrie del paese, muove interessi milionari, ma è prigioniero di intrecci perversi e opachi. Altra nebbia non fa bene. Malagò è preso da un nuovo vigore nell’occuparsi in queste ore della crisi dopo averla sottovalutata e accettata fino all’ultimo. Solo tre anni fa definiva «importante coraggioso e innovativo» il programma di Tavecchio, a un certo punto ne elogiò la «nuova linfa nel processo riformatore», erano tempi in cui Delrio e dopo di lui il ministro Lotti stavano a guardare o scrivevano un tweet. Un uomo fidato di Coni e Palazzo Chigi è stato braccio operativo di Tavecchio e prezioso per la sua rielezione, il dg Michele Uva, che presentò l’accordo tra la Nazionale e la società di scommesse Intralot, per mostrarsi poi insofferente al lavoro dell’Antimafia sul calcio, una gaffe fatta peraltro a Palermo. Ora Malagò lavora sotto traccia con Lotti, dopo aver cambiato idea due volte in tre giorni sulla legittimità di un eventuale commissariamento.
Il Coni non può imporlo per i risultati del campo, altrimenti dovrebbe fare lo stesso domattina per basket, rugby e atletica. Né può imporlo per un rosso in bilancio: la Figc ha i conti in regola e molte altre federazioni – su cui Malagò dovrebbe vigilare – invece no. Il Tar incombe. In più Malagò dice di non voler parlare con “lor signori”, i presidenti di club che non sanno eleggere i vertici in Lega, ma con Lotti è di fatto una sponda per quella decina che lo gradirebbe al timone in Figc. La questione è semplice: si può fare moral suasion, suggerire dimissioni e poi navigare fra le regole, forzare la mano, per prendersi una poltrona vuota?È un esempio di neutralità istituzionale? Malagò ha tutto il diritto di giocare una partita a cui tiene e a cui lega forse il suo futuro post Coni. Può farlo con i grandi mezzi di cui dispone, dal sostegno della potentissima lobby romana del circolo Aniene alle relazioni trasversali con la politica. Deve solo passare alla cassa a pagare il prezzo, un prezzo alto, la rinuncia a essere considerato autorevole e credibile come arbitro. Nessuno può essere arbitro e giocatore. Neppure se ha l’ego di Malagò, che nella sua tardiva conversione alle riforme può al massimo intestarsi il processo, non guidarlo. Non è una questione di nomi ma di curriculum. Al calcio adesso servono uomini indipendenti, se in giro ce ne sono ancora.