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 2017  novembre 26 Domenica calendario

Trent’anni di Dirty Dancing

«Quando nel 1987 scrissi la storia di Dirty Dancing – Balli proibiti non immaginavo l’enorme successo che il film avrebbe avuto, né che la storia d’amore tra Baby (Jennifer Grey) e Johnny (Patrick Swayze), il bel maestro di ballo, si sarebbe trasformata nel film icona della cultura pop degli anni 80» racconta Eleanor Bergstein, 79 anni, autrice e co-produttrice del film premio Oscar (Miglior canzone per I’ve Had The Time of My Life ).
Pullover fucsia a collo alto, una cascata di capelli candidi, un sorriso cordiale sul bel volto maturo ma senza ritocchi, Bergstein scava volentieri nel cassetto dei ricordi di quel film partito con un budget al minimo, e diventato a sorpresa una macchina da soldi: 214 milioni di dollari incassati in tutto il mondo, lo scettro di primo film a superare il milione di copie vendute in home video, una colonna sonora da trenta milioni di copie. Che la storia di Baby si sia appropriata di parte dell’adolescenza di Eleanor, che trascorreva le estati con la sua famiglia nei lussuosi resort delle Catskill Mountains, è noto. «È là che ho cominciato a ballare il mambo. Per scrivere il testo – ricorda – sono partita dalle musiche, un mix di R&B vintage mescolato a soul e pop dell’inizio degli anni 60. La vera sfida, però, è stato tradurre sul palco i passi di danza amati dal pubblico».
Già, perché nel 2004 Dirty Dancing è diventato un musical, che in occasione dei 30 anni di successi del film torna a teatro in una speciale versione rinnovata firmata dal regista Federico Bellone. L’appuntamento è al Teatro degli Arcimboldi di Milano dal 13 dicembre al 7 gennaio: lo spettacolo girerà poi l’Italia da febbraio a maggio. Osserva Bergstein: «Ho dovuto pensare a come rendere fruibile lo show da ogni posto a sedere di tutti i teatri in cui la tournée avrebbe fatto tappa. Non volevo “rifare” il film sul palco. Quanto, piuttosto, che il pubblico venisse “posseduto” dallo spettacolo così come dalla pellicola. Ho cercato di bilanciare l’energia travolgente di un concerto rock con l’intimità del teatro».
Aveva anche un’altra ambizione: «Se, grazie all’affetto per il film, fossi riuscita a portare a teatro persone che non sono solite andarci; se avessero visto quanto può uno spettacolo dal vivo essere meraviglioso, forse sarebbero poi tornate a vederne altri. Stavo quindi facendo qualcosa per il teatro» racconta. Quando ha realizzato il libretto, ha voluto mantenere più realismo di quanto sia di solito tipico nel teatro musicale perché, spiega, «il punto centrale di questa storia è che chiunque potrebbe esserne il protagonista: se il cuore vola abbastanza alto, ognuno può ballare in un modo che può cambiare la sua vita. Dirty Dancing non è una storia di ballerini ma di persone che trovano nel potere della danza il modo di connettersi al mondo e ai loro cuori».
Nella scelta degli attori sul palco, osserva, la competenza tecnica conta solo in parte. È vero che lei, come si racconta, fa il «casting all’anima»? «So quello che cerco quando seleziono i miei personaggi. Anche se servono nervi d’acciaio perché quando i tempi per la scelta si allungano, la produzione comincia a fare pressioni. Poi, proprio come succede con l’amore, improvvisamente ti ritrovi a dire: oh, ecco quello che stavo cercando».
È andata così anche con Patrick Swayze? «Trovare l’attore giusto per un ruolo è cruciale per la mia visione creativa. Quando vidi Patrick pensai: questi sono gli occhi che voglio. Gli dissi: non sapevo che esistessi quando ho scritto Dirty Dancing. Ora non posso immaginare di farlo senza di te. Era un uomo meraviglioso, non mi chieda altro».
Sotto l’apparente leggerezza, il film affronta anche temi difficili come il femminismo, l’aborto, la guerra... «È così, e mi preoccupa che quei giorni che sembrano lontani siano di nuovo qui. Il film è ambientato nell’estate del 1963: in maggio la polizia aveva sguinzagliato i cani contro i dimostranti per i diritti civili a Birmingham, in Alabama, “la città più segregata d’America” come la definì Martin Luther King, che qualche mese dopo, il 28 agosto, pronunciò il celebre “I have a dream”. L’America di Trump – le tensioni razziali che hanno dato origine al movimento Black Lives Matter, le leggi anti aborto, la guerra in Iraq, che allora era quella in Vietnam – ricorda molto quella degli anni 60. Pensavamo di aver vinto le battaglie combattute allora. Non è così. E Dirty Dancing trent’anni dopo non smette di ricordarcelo».