Corriere della Sera, 26 novembre 2017
Dai sufi agli yazidi, le minoranze nel mirino dell’Isis: colpire gli eretici per restare «puri»
«Ahad!!!», uno, ovvero: «Dio è uno solo», si legge persino sui graffiti sui muri del carcere di Isis nei sotterranei dello stadio di Raqqa. Li hanno vergati i militanti jihadisti condannati per qualche infrazione del codice rigoroso di comportamento imposto in nome dell’interpretazione più intransigente e rigida del monoteismo wahabita. È stato interessante trovarli ancora perfettamente leggibili tra le rovine della capitale del «Califfato» appena catturata dalle milizie curde siriane.
Proprio quei graffiti possono aiutarci a spiegare i motivi che due giorni fa hanno spinto gli estremisti sunniti in odore di Isis ad attaccare la moschea sufi nel nord del Sinai. «Ahad» significa «uno», il che esclude qualsiasi accenno di politeismo, senza neppure nominare la trinità cristiana, inclusi i pellegrinaggi sulle tombe di santi e predicatori, inclusa l’«eresia» yazida, inclusi i «traditori» sciiti, inclusi persino i sunniti tolleranti, quelli che magari non si alzano sempre prima dell’alba per le preghiere e si dimostrano un poco pigri nel rispettare le regole del Ramadan. Inclusi anche i seguaci della tradizione sufi: tollerante, pluralista, i cui leader ribadiscono la loro adesione alla tradizione religiosa musulmana, ma intimista, mistica, la cui enfasi sulla crescita spirituale tramite la meditazione estatica è vista come idolatria dagli zeloti del monoteismo. Il New York Times cita Jacob Olidort, studioso dell’Islam, che individua proprio nel pellegrinaggio ai maestri «santi» sufi esperti nella meditazione il motivo centrale dell’accusa di «politeismo» rivolta loro da Isis e Al Qaeda.
Sembrano dispute di un altro mondo, cose da inquisizione medievale. Non lo sono. L’espansione dell’estremismo islamico sunnita negli ultimi tre decenni ha visto proprio questi argomenti diventare sempre più il motore primo di rapimenti, minacce, torture, assassinii e attentati. Così l’attacco alla moschea sufi, il massacro di musulmani contro musulmani, diventa la prova evidente che Isis è ormai radicato anche nel Sinai. Nella visione teologica di Isis e dei gruppi simili in verità i sufi sono «pericolosi eretici», anche peggio degli yazidi e dei cristiani, visto che comunque si presentano come musulmani. E una delle pratiche più comuni a questi movimenti è iniziare ad eliminare subito gli eretici dall’interno delle proprie comunità, addirittura prima dei cristiani o degli ebrei.
Da tempo ormai gli attacchi contro le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sufi sono la norma in Pakistan. Tra il fine inverno e l’inizio primavera di quest’anno 88 sufi sono stati uccisi nel Sindh meridionale. E il 2 aprile un’altra ventina è stata linciata nel Punjab. Nelle stesse regioni le milizie filo-talebane (oggi sempre più infiltrate da Isis) non si fanno problemi nell’attaccare le moschee della minoranza sciita. Lo stesso accadde nel Mali quando nel 2012 le milizie qaediste si impadronirono di Timbuctù distruggendo diversi mausolei sufi. A Tripoli i primi governi di transizione seguiti alla violenta defenestrazione di Gheddafi rimasero letteralmente impotenti quando le milizie più estremiste legate ai Fratelli Musulmani, il 24 agosto 2012, iniziarono a distruggere con bulldozer e ruspe l’antico edificio di una moschea sufi non lontano dalla passeggiata sul mare che porta alle mura dalla cittadella medioevale. Che fare? I rappresentanti dei governi occidentali rimasero in silenzio.
Anche le milizie più «laiche» non reagirono. Il governo libico si limitò ad una velata protesta. Ma di fatto la polizia si schierò sul sito e lo nascose con una palizzata invitando i «barbuti» ad accelerare il loro lavoro. Sembrò una breve parentesi, un incidente da dimenticare. Ma pochi mesi dopo i primi militanti di Isis cominciarono a farsi sentire dalle periferie meridionali di Tripoli alle «montagne verdi» della Cirenaica e infine a Sirte.