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 2017  novembre 26 Domenica calendario

Storia (e segreti) del Quirinale

Chi ama le vicende istituzionali e soprattutto gli aneddoti dai quali sono quasi sempre punteggiate; chi è attratto dagli interna corporis, curioso di sapere ciò che essi, in quanto tali, sono tenuti a nascondere; chi della storia ama conoscere non solo l’essenziale (a cui gli storici, ciascuno dal suo punto di vista, la riducono), ma anche l’inessenziale; chi è attratto, insomma, da uno o più di questi piaceri, troverà il libro di Giovannetti e Pacelli (Il Colle più alto, Giappichelli, ndr) godibilissimo.
L’arco storico coperto è molto lungo, va dallo Statuto albertino agli anni di Carlo Azeglio Ciampi. Ed è giusto che sia così, perché fu proprio lo Statuto a dare la prima conformazione giuridica e la prima disciplina pubblicistica ad un complesso, la Corona e ciò che essa aveva intorno, in precedenza lasciato al malcerto assetto, comunque più privato che pubblico, del patrimonio del re. Dallo Statuto il re avrebbe avuto la sua “lista civica”, la sua dotazione di beni e di personale – e già nel 1849 sarebbe nata la Real Casa, inizialmente sottoposta a un Sovraintendente, poi a un “Ministro”, istituito con regio decreto del 1856. Ce ne sarebbe voluto tuttavia di tempo perché il pubblico si scindesse nettamente dal privato, i dipendenti della Real Casa dalle persone che brulicavano a Corte, le spese e i beni dello Stato dalle spese e dai beni del sovrano. Sembrava fatta con il decreto Zanardelli, che nel 1901, visto che il re da decenni nominava il “Ministro” della Real Casa, collocò la stessa nomina fra le attribuzioni del Consiglio dei ministri (del resto già Giovanni Lanza, nel 1869, aveva fatto in concreto la stessa cosa). Eppure, ancora nel 1906, la Cassazione avrebbe definito “privato” il complesso amministrato da quel Ministro (con lo scopo, trasparente, di tenere le spese del re al riparo da ogni controllo esterno). Ci vollero così ancora due decreti, uno nel 1919, l’altro nel 1926, rispettivamente per i beni e per la pianta organica. Ma alla fine fu il piglio decisorio di Pietro Acquarone, divenuto ministro della Real Casa nel 1939, a far nascere davvero quella amministrazione autonoma del Quirinale, che sarebbe stata il vero antecedente della presidenza repubblicana.
Mentre interveniva questa lunga evoluzione – un secolo dallo Statuto alla Repubblica – si succedevano re e regine, si succedevano – non lo dimentichiamo – le capitali (oltre a succedersi gli stessi Regni). Qui però è bene limitare le anticipazioni e lasciare intero al lettore il gusto di leggere. Lo delizierà la nomenclatura delle cariche del tempo, non solo il prefetto di palazzo e il Primo aiutante di campo, ma anche il Grande Scudiero e il Grande Cacciatore, il Cavaliere d’onore e la Dama d’onore. Lo appassioneranno le gesta dei ministri della Real Casa di lungo corso, come Giovanni Visone, che lo fu per vent’anni. Lo stupiranno le capacità, e le risorse finanziarie di origine mai chiarita, che permisero a Umberto I di sanare i debiti lasciati dal padre, di avere attorno a sé una fra le Corti più sontuose d’Europa, di comprare una villa sulla Nomentana per la sua amante, la Contessa Litta, assegnandole anche una ricca rendita (e facendola nominare dama di Corte al fianco della Regina), di costruire il palazzo al fianco del Quirinale, che oggi ospita, fra l’altro, gli archivi. (...)
Devo ammettere – e devo preavvertire il lettore – che la parte del libro dedicata al Segretariato è meno allettante di quella sulla Real Casa. Ma sia permesso aggiungere: meglio così. Per i cultori di cose istituzionali, può divertire la soluzione a cui ricorsero Enrico De Nicola, appena eletto presidente provvisorio dall’Assemblea Costituente, e Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, per tenere in piedi la struttura del Quirinale, una volta abolito il Ministro della Real Casa. Era il 19 giugno 1946 e lo stesso decreto che provvedeva a tale abolizione, istituì – indovinate un po’ – un commissario per l’amministrazione straordinaria, in primis dei beni, divenuti irrefutabilmente demaniali. L’eterna e polivalente figura del commissario, dunque, sempre pronta alla bisogna. (...)
Il libro ha due capitoli incentrati sui successivi presidenti, prima visti ciascuno alle prese con il Palazzo e la sua vita interna, poi, più largamente, raccontati nella loro elezione e nella storia della loro presidenza. Non meno che per la storia regia, si raccomanda qui il self restraint nell’anticipare al lettore ciò che potrà trovarvi. Si può solo dire che si incontrano cose note e cose meno note. Fra le meno note, forse, la mezza pera del parsimonioso Luigi Einaudi, prima che arrivasse la stagione – avrebbe scritto Ennio Flaiano – delle pere indivise. La passione per i treni di Gronchi, tradottasi non solo nel treno presidenziale con il quale faceva su e giù Roma Pisa, ma anche nella stanza dei trenini, attrezzata al Quirinale come solo un ragazzo avrebbe potuto sognare. E poi, sempre a proposito di stanze, la stanza dei colonnelli, riservata a speciali appuntamenti di Segni, e, questa di sicuro nota, la “sala situazioni” di Cossiga, ricca di tecnologie elettroniche.
In tema di storie presidenziali, tre temi soltanto segnaliamo al lettore. Il primo è l’elezione di Enrico De Nicola, e quindi la caduta del candidato di Nenni (che era Benedetto Croce) e le sofferenze che di sicuro De Nicola inflisse a De Gasperi, pagandole poi con l’ostracismo di questi alla sua elezione come presidente non più provvisorio. Il secondo è la caduta in disgrazia di Giovanni Leone, un episodio fra i più vergognosi della storia della Repubblica, al quale troppo tardi si è posto rimedio, salvo a riprodurne i modi in tante vicende successive, nelle quali è ancora prevalso l’irresistibile gusto di additare lo scandalo ben prima di averlo provato. Il terzo è l’elezione di Sandro Pertini, con particolare riguardo al ruolo che il vecchio Sandro abilmente giocò nel promuovere, non visto, la propria candidatura. Non era semi-addormentato sotto il suo plaid, mentre la partita si giocava. Ne fu, al contrario, fra i protagonisti più abili.
(Questo testo è tratto dalla prefazione di Giuliano Amato al libro di Mario Pacelli e Giorgio Giovannetti, Il Colle più alto, Giappichelli, Torino, pagg. 274, € 28)