Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2017
L’alba del nucleare. A Chicago 75 anni fa Enrico Fermi metteva in funzione la pila atomica, il primo reattore
«Se si riuscisse a mettere in libertà l’energia contenuta in un grammo di materia si otterrebbe un’energia maggiore di quella sviluppata in tre anni di lavoro ininterrotto da un motore di mille cavalli (inutili i commenti!). Si dirà con ragione che non appare possibile che, almeno in un prossimo avvenire, si trovi il modo di mettere in libertà queste spaventose quantità di energia, cosa del resto che non si può che augurarsi, perché l’esplosione di una così spaventosa quantità di energia avrebbe come primo effetto di ridurre in pezzi il fisico che avesse la disgrazia di trovar il modo di produrla». Così scriveva nel 1922 un neolaureato della Normale di Pisa, Enrico Fermi, l’unico in quel momento in Italia (e tra i pochi al mondo) ad aver capito che uno degli aspetti più promettenti della relatività einsteiniana era l’equivalenza di massa ed energia, con la conseguente possibilità – all’epoca ancora remota – di convertire la prima nella seconda. La lungimiranza del ventunenne fisico italiano non può non lasciare sbalorditi, e fa effetto pensare che sarà proprio lui a conseguire due decenni dopo (e senza essere «ridotto a pezzi») i risultati clamorosi prefigurati in quel breve testo giovanile.
Settantacinque anni fa, il 2 dicembre 1942, Fermi metteva in funzione a Chicago il primo reattore nucleare, la «pila critica» CP-1 (il termine «pila» sta a indicare la struttura a strati sovrapposti dell’apparato). Fu, come ricordano Gino Segrè e Bettina Hoerlin in una bella biografia di Fermi, appena uscita (Il Papa della fisica. Enrico Fermi e la nascita dell’era atomica, Raffaello Cortina Editore), «il giorno in cui nacque l’era atomica». Le premesse erano state poste otto anni prima dallo stesso Fermi, assieme ai suoi collaboratori Franco Rasetti, Edoardo Amaldi, Emilio Segrè, Oscar D’Agostino, Bruno Pontecorvo. Con una lunga serie di esperimenti, i «ragazzi di via Panisperna» avevano mostrato che era possibile generare isotopi radioattivi mediante il bombardamento di nuclei con neutroni lenti. Usando l’uranio come bersaglio, si erano convinti di aver prodotto degli elementi più pesanti, ma si sbagliavano. Nel dicembre del 1938, a Berlino, Otto Hahn e Fritz Strassmann scoprirono che tra i prodotti del bombardamento neutronico dell’uranio c’era un elemento più leggero, il bario. Furono Lise Meitner e Otto Frisch a spiegare questo fatto come la conseguenza della scissione del nucleo di uranio in due grossi frammenti (la fissione nucleare), e a capire che nel processo una piccola frazione di massa si trasformava in energia.
Mentre Meitner e Frisch preparavano l’articolo per la pubblicazione, Fermi – dopo aver ricevuto a Stoccolma il premio Nobel – navigava con la famiglia alla volta degli Stati Uniti. La notizia della fissione gli fu comunicata da Niels Bohr qualche settimana più tardi. «Fu allora – disse in seguito – che mi accorsi per la prima volta che un fenomeno di questo genere avrebbe potuto un giorno far uscire la fisica nucleare dal campo ristretto della ricerca pura, trasportandola in quello delle “cose grosse”». Il giorno delle «cose grosse», in effetti, non era molto lontano. Fermi capì subito che se il processo di fissione generava un numero sufficiente di neutroni in grado di bombardare altri nuclei, poteva prodursi una «reazione a catena», con un rilascio esponenziale di energia. E non mancò naturalmente di pensare che una simile reazione avrebbe potuto costituire il meccanismo di un potentissimo ordigno.
Il fatto che i laboratori della Germania nazista fossero all’avanguardia negli studi sulla fissione nucleare indusse, nell’estate del 1939, Albert Einstein (su invito del fisico ungherese Leo Szilárd) a scrivere al presidente Roosevelt per sensibilizzarlo al problema. Solo a metà del 1940, tuttavia, arrivò il primo modesto finanziamento governativo. La vera spinta fu impressa alla fine del 1941 da Pearl Harbor e dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. La fase successiva delle ricerche si svolse in totale segretezza presso il «Laboratorio Metallurgico» dell’Università di Chicago (che non aveva nulla a che vedere con la metallurgia). La pila definitiva – un’enorme struttura di mattoni di grafite e sfere di uranio, con un’impalcatura in legno – fu montata nel novembre del 1942 in un campo da squash sotto le tribune dello stadio universitario. Le dimensioni che avrebbero consentito di raggiungere la condizione critica erano state previste esattamente da Fermi, con la sua leggendaria infallibilità (non a caso i colleghi romani lo avevano soprannominato «Il Papa»).
La mattina del 2 dicembre 1942 Fermi prese posto sulla balconata del campo, accanto ai contatori dei neutroni. Ai suoi piedi, davanti alla pila, il fisico George Weil aveva l’incarico di azionare una barra di controllo, estraendola progressivamente per innescare la reazione. Alle 15.20 Fermi diede a Weil l’ordine di estrarre la barra per gli ultimi decisivi centimetri. L’intensità dei neutroni si impennò rapidamente e continuò a crescere, come calcolato dal «Papa»: la prima reazione a catena autosostenuta era diventata realtà. Arthur Compton, il direttore del Laboratorio Metallurgico, comunicò in codice la notizia al collega James Conant di Harvard: «Il navigatore italiano è sbarcato nel Nuovo Mondo», gli disse. «Come si sono comportati gli indigeni?» chiese Conant. «Molto amichevolmente», rispose Compton.
La potenza generata dalla pila di Fermi era irrisoria, appena mezzo watt (!). Oggi, a tre quarti di secolo dal suo esordio come fonte di energia, il nucleare copre il 10% del fabbisogno di elettricità del pianeta, con circa 450 reattori e una potenza complessiva di 390 gigawatt. Dietro questi numeri c’è però una realtà variegata. La sopravvivenza del nucleare è sostenuta infatti in misura dominante dai Paesi asiatici, Cina in testa, che continuano a costruire reattori, mentre nel mondo occidentale il nucleare arretra sensibilmente: a causa del progressivo smantellamento delle centrali più vecchie e della loro mancata sostituzione con impianti nuovi, in Europa la quota di elettricità da fonte nucleare diminuirà dall’attuale 25% al 15% nel 2040, ed è difficile pensare che questa tendenza possa invertirsi.
Ma il nucleare ha anche un’altra faccia, completamente diversa: la fusione, la reazione “pulita” in cui nuclei di deuterio e trizio si fondono producendo nuclei di elio e rilasciando energia – come avviene nelle stelle. Da almeno cinquant’anni si cerca di realizzare in maniera controllata questo processo. Dopo tante promesse mancate, adesso si è forse sulla buona strada con l’esperimento ITER, un grande progetto internazionale con base a Cadarache, vicino a Marsiglia. Ci vorrà ancora un lungo periodo di studio e sperimentazione, ma la speranza è che il centenario della pila di Fermi, negli anni Quaranta del Duemila, possa essere festeggiato con un reattore a fusione – il primo piccolo sole realizzato sulla Terra.