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 2017  novembre 26 Domenica calendario

Le parole che usiamo veramente. Un secolo di Zingarelli

Compie cent’anni, lo Zingarelli. Ma li porta bene: meglio di tanti suoi simili, visto che nel panorama dei vocabolari italiani è quello che più di ogni altro tiene – almeno nell’ultimo quarto di secolo – a un aggiornamento continuo, cioè a una nuova edizione ogni anno, sempre attenta a registrare senz’alcuno scrupolo puristico parole e locuzioni che di fatto si usano, nel senso che fanno parte del lessico italiano compreso da tutti e usato dai più. Se tali parole segnino le tappe di uno sviluppo o siano i sintomi di un’involuzione sta ad altri dirlo (posto che abbia senso): nell’ottica di un dizionario dell’uso quale appunto lo Zingarelli è, non ha senso riservare un trattamento diverso a un tecnicismo teo-politico come salafismo, a una brillante neoformazione come pitonato e al limite a un inutile anglicismo come curvy (ossia per restare al già registrato, giunonico, o banalmente formosoprosperoso o florido, forse più espressivamente burroso, anche senza ricorrere al mal connotato cicciottello: del resto, c’è da dubitare che del primo sinonimo citato farebbe oggi un uso corretto una buona metà degli italiani). Sono tutti esempi di nuove entrate dall’edizione 2017.
Strana e complessa storia, quella dello Zingarelli, a partire dal nome che ancora oggi è attaccato al dizionario monovolume più diffuso sui banchi di scuola: il nome di Nicola Zingarelli, filologo pugliese (era nato a Cerignola, Foggia, nel 1860) esperto di Dante, si legò per sempre a quello della lessicografia italiana quando la casa editrice Bietti e Reggiani nel 1913 gli dette nove mesi per realizzare un vocabolario della lingua italiana destinato al grande pubblico. Ci vollero in realtà ben nove anni per arrivare alla prima edizione completa del dizionario, che uscì nel 1922. Ma già dal 1917, un secolo fa esatto, l’opera cominciò a uscire in dispense, di cui si deve immaginare la paziente raccolta in un mondo molto diverso da quello a cui siamo abituati. Scheda dopo scheda, fascicolo dopo fascicolo, il Vocabolario della lingua italiana(questo il titolo, fin dall’origine) divenne l’occupazione principale del professore per più d’un ventennio, fino alla morte (1935). Era un lavoro di cui lo stesso autore si dichiarò a lungo francamente insoddisfatto, e che già in un tempo così ridotto gli dava l’idea di invecchiare velocemente, richiedendo continui interventi di manutenzione, per inseguire una lingua che dopo secoli di quieto e solenne sviluppo nell’alveo della letteratura, si era data a correre sui binari e sulle strade di una modernità sgangherata ma esigente. Solo all’ultimo, in una lettera scritta in Val Vigezzo in piena estate del 1934, il professore si lascia andare all’ottimismo di un bilancio positivo: «Il vocabolario è veramente aggiornato; col patrimonio della lingua appare luminosamente la ricchezza della nostra civiltà e cultura (…) e insieme il potere assimilativo dei progressi di tutte le nazioni». C’è più apertura cosmopolita che retorica fascista in queste righe.
Il fatto è che lo Zingarelli non si contenta, fin dal principio, di volgersi indietro, verso la tradizione a cui da sempre guardava la lessicografia italiana, ancora lungo tutto l’Ottocento, come secolo d’oro dei vocabolari secondo una definizione di Claudio Marazzini. È per questo che, paradossalmente, il marchio Zingarelli resistette, pur nel continuo aggiornamento del contenuto,alla morte dell’autore, e persino al cambio di casa editrice. Come capita con certe invenzioni di successo, che a lungo andare trasformano il nome proprio in un nome comune. A favorire lo slittamento, in questo caso, è anche una curiosa assonanza, che dovette agire nella scelta dell’editore Zanichelli di lasciare immutato il nome del prodotto, anche dopo averlo acquistato per l’allora fantasmagorica cifra di un milione di lire.
Accasatosi a Bologna, dove venne pubblicato a partire dal 1941, lo Zingarelli (vocabolario) iniziò una seconda vita. Gli restarono, della prima, un’attenzione particolare ai termini della scienza, della tecnica, insomma di quel linguaggio lontano dalla letteratura a cui la linea maestra della lessicografia italiana aveva guardato spesso con distrazione o pigrizia. Col tempo, il prodotto si raffinò per far fronte a una concorrenza sempre più agguerrita: e mentre il panorama editoriale italiano si affollava di dizionari spesso firmati da glottologi e storici della lingua (quale Nicola Zingarelli, di fatto, non era), il Vocabolario della lingua italiana passava dalla semplice redazione a una sempre più matura revisione, coinvolgendo un’ampia équipe composta anche di linguisti. Ma pure di scienziati, di giuristi. E di grafici di alta professionalità: chiunque abbia avuto da bambino il primo contatto con una delle edizioni dello Zingarelli (in casa mia ne circolava una versione ridotta, quasi tascabile), ne ricorda forse soprattutto le coloratissime tavole nomenclatorie, e le nette illustrazioni in bianco e nero poste direttamente a fianco dei lemmi, che per molti costituirono il viatico più memorabile (o proprio: memorizzabile) alle finezze del lessico, dell’ortografia, della pronuncia: per me, il ricordo della verifica sulla grafia della terza persona del presente indicativo del verbo fareresta indelebilmente legato al disegno di una farfalla che spiegava le sue ali a pochi centimetri di distanza dal lemma oggetto della ricerca. Associazioni stranianti ma tipiche di quel gran libro delle parole.
(Nicola Zingarelli, Lo Zingarelli 2018. Vocabolario della lingua italiana, a cura di Mario Cannella, Beata Lazzarini, Zanichelli, 
pagg. 2688, € 67,50.)