il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2017
Intervista alla psicanalista Silvia Vegetti Finzi: «Non abbiamo tramesso alle nostre figlie il valore della maternità»
“Sappiamo cosa siamo, ma non cosa possiamo essere o cosa saremmo potute essere”, scriveva Germaine Greer, una delle più influenti voci del femminismo del XX secolo, in un famoso libro, L’eunuco femmina. Era il 1970 e oggi probabilmente quell’affermazione è meno vera. O forse no: l’abbiamo chiesto a Silvia Vegetti Finzi, psicanalista e femminista.
Nel suo destino c’era l’insegnamento: “Vengo da una famiglia di insegnanti: si dava per scontato che facessi la maestra o la professoressa, dato che ero femmina. Quindi mi sono iscritta a Pedagogia, alla Cattolica di Milano. Lì però ho scoperto una nuova disciplina, la psicologia sperimentale. Padre Agostino Gemelli era il rettore e, pur con i grandi limiti rispetto alla nuova morale sessuale che si andava delineando, era una personalità riconosciuta a livello internazionale per i suoi studi di psicologia”.
Com’era l’Italia a metà degli anni Cinquanta?
Profondamente bigotta. L’ambiente di allora è difficile raccontarlo oggi. Siamo nel 1956: le studentesse dovevano indossare il grembiule nero, i corridoi erano separati per ragazzi e ragazze: si convergeva a lezione seguendo addirittura percorsi diversi. La biblioteca era divisa, come accadeva in chiesa, tra maschi e femmine. Camminava avanti e indietro una megera che non tollerava nessuno scambio tra le due sezioni. Nemmeno riuscivo a dire al mio moroso ‘ci vediamo fuori’, che scattava una sibilante ingiunzione al silenzio. In bagno, al posto degli specchi, un cartello con la scritta: ‘La donna che si trucca e che si depila le sopracciglia è una donna che mente!’. Nella mia tesi di laurea sulle prime esperienze di lavoro delle operaie tessili, avrei poi colto fermenti di insofferenza rispetto al paternalismo e all’autoritarismo tradizionali, un senso nuovo dei propri diritti. L’oscurantismo degli anni Cinquanta si stava dileguando.
Poi si è specializzata in Psicologia.
Sì, nella sezione di Psicologia Clinica, appena inaugurata. Eravamo in cinque o sei studenti al massimo: pionieri. Leonardo Ancona, il direttore dell’Istituto, aveva importato dagli Stati Uniti studi per noi innovativi, tra cui quelli sul Dna. Con il libro La Psicoanalisi del 1963, Ancona era riuscito a far accettare la psicoanalisi, condannata dalla Chiesa come pansessuale, alla cultura cattolica.
Dopo la specializzazione?
Ho lavorato allo Iard, un istituto di ricerca sociologica, specializzato in studi sulla condizione giovanile partecipando a una vasta indagine sul disagio scolastico. In contrasto con la psicologia tradizionale, che era centrata sul singolo bambino indipendentemente dal contesto ambientale, quella ricerca riuscì a dimostrare che decisiva è la condizione socio-economica da cui gli alunni provengono. Fu una esperienza coinvolgente e formativa ma anche per me molto dolorosa perché, dovendo riorganizzare l’équipe, fui allontanata appena comunicai di aspettare il secondo figlio.
Poi è passata all’università?
No, quello è stato un passaggio successivo. M’interessava l’aspetto terapeutico della psicoanalisi, ma non volevo praticarlo in ambito privato, per ragioni di principio. Appena assunta in un consultorio pubblico di estrema periferia, incontrai una realtà squallidissima. Lo studio che mi era stato assegnato, in un nido d’infanzia, era ricavato da un gabinetto a cui avevano tolto solamente il water. Ma trovai il lavoro terapeutico straordinariamente interessante perché mi permetteva di incontrare persone appartenenti ad ambienti molto lontani dalla mia esperienza come gli operai, i sottoproletari, i nomadi, i ricoverati negli ospedali psichiatrici e negli istituti assistenziali. Erano i primi anni 70, anni carichi di speranze che, di fatto, cambieranno la nostra società.
Chi erano i suoi pazienti?
Bambini che vivevano in condizioni di povertà e di estremo disagio familiare, a contatto con criminalità e prostituzione. In quegli anni ho avuto l’opportunità di collaborare con profitto con una giovane magistrata, Livia Pomodoro, indipendente e innovativa.
I rapporti con gli uomini, com’erano?
In generale di subordinazione. Il femminismo era ancora elitario e le leggi sui consultori familiari, il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia, varate dal ’75 al ’78, non erano state ancora applicate interamente. Dal punto di vista professionale, subordinati lo eravamo anche noi psicologi, considerati assistenti dei neuropsichiatri. Solo grazie all’appoggio del cattedratico Marcello Cesa Bianchi e alle battaglie della nostra categoria, riuscimmo a conquistare l’autonomia. Nel 1973, collaborando con il reparto di Pediatria dell’ospedale San Carlo di Milano, ebbi modo di seguire il caso della piccola Anna. I suoi sogni, narrati e illustrati, mi hanno permesso di comprendere il percorso immaginario che conduce una bambina a diventare donna e madre. Una indagine che racconto ne Il bambino della notte (Mondadori). Tra tanti, il “mio libro” per eccellenza.
Ha partecipato al movimento femminista?
Sì, con un certo ritardo. Era già iniziato, a Milano, nei primi anni Settanta ma, dovendo occuparmi di due figli piccoli, solo dal 1980 ho cominciato a impegnarmi sistematicamente. In quel decennio ho viaggiato molto, tenendo incontri alla Libera Università delle donne Virginia Woolf, dove insegnavano Rossana Rossanda, Nadia Fusini, Sandra Bocchetti, Francesca Molfino. Il pubblico era costituito da donne molto diverse tra di loro, dalla docente universitaria alla postina. Per me, che non ho mai fatto politica, è stata un’esperienza decisiva conoscere tante ‘sorelle’ e chiedermi, con loro, che cosa vuol dire essere donna. Stavamo cambiando il mondo e sembrava che tutto potesse accadere. Dopo Roma, avevo incontrato a Napoli le ‘Nemesiache’ e poi le donne di Mestre, di Torino, di Bologna, di Livorno e di Genova. Ma il rapporto più fecondo sarebbe stato quello con il Centro documentazione donna di Firenze, durato una decina di anni, organizzando convegni e producendo documentazioni ormai disperse, che varrebbe la pena di recuperare.
E i cortei?
La filosofa parigina Luce Irigaray, dopo la pubblicazione di Speculum, era diventata un punto di riferimento per tutte. Mentre ferveva la produzione teorica, bisognava difendere le recenti conquiste, come il divorzio e l’aborto, per cui si sfilava per le strade con gonne lunghe e zoccoli, pronunciando slogan minacciosi come: ‘Tremate, tremate, le streghe son tornate!’. Peccato che non si sia mai riuscite ad alleare le ‘politiche’ con le teoriche, prassi e riflessione non si sono mai fuse. Non avendo conosciuto la sessuofobia imperante sino agli anni 70, le giovani danno ora per scontata la loro autonomia. Ma nulla è per sempre e occorre resistere per non retrocedere, non considerare ineluttabile ciò che accade. Se non reagiamo noi, nessuno lo farà al nostro posto.
Quali sono i problemi delle donne che lavorano?
Abbiamo un andamento dell’occupazione che è del tutto contrario agli interessi delle donne: appena finiti gli studi, quando vi è il massimo di disponibilità, spendono anni nella ricerca, spesso infruttuosa, di un lavoro adeguato. Quando intorno ai trent’anni sono impegnate a mettere al mondo e crescere i figli, ricevono le poche, ambite proposte di carriera. Se rinunciano per l’impossibilità di conciliare i tempi, vengono emarginate per sempre e una volta uscite dal mondo del lavoro non possono più rientrare. Per chi resiste, proprio quando i figli sono cresciuti e sono tornate disponibili, scatta spesso il prepensionamento…
Le donne politiche insistono molto sull’importanza, fino all’imposizione, perché siano declinate al femminile tutte le cariche e le professioni.
Mi pare una forma d’integralismo. Le parole hanno una loro storia e una loro autonomia, cambiano insieme ai costumi, non per decreto. La lingua non si norma con l’imperativo, se cambia è per un convincimento condiviso.
Le femministe hanno combattuto perché le donne venissero considerate per ciò che erano e non per come apparivano. Oggi sembra che per molte ragazze l’obiettivo sia mettere in mostra il corpo.
È una regressione, un tentativo di adeguarsi a stereotipi preconfezionati. Tutta una stampa, il gossip da parrucchiere, propone unicamente modelli femminili in cui si valorizza la bellezza del corpo. La velina, la letterina, la soubrette divengono ideali di successo. Bisognerebbe provare a contrapporre altri modelli.
È quello che ha fatto con i suoi libri?
Sì e anche con l’insegnamento universitario. Ho cercato di trasmettere punti di vista nuovi, parametri diversi, capaci di scalzare l’ovvietà della realtà pre-giudicata. In questo, aiutata dalla psicoanalisi, che possiede comunque un potenziale eversivo, e dal femminismo, che mette in crisi gli stereotipi di identità sessuali eterne e immodificabili.
L’aborto è un diritto solo sulla carta?
In Molise opera un solo medico non obiettore: è incredibile come questa legge sia applicata diversamente nelle varie regioni d’Italia. La Ru-486, la pillola che induce l’aborto farmacologico, in Toscana è somministrata in regime di day hospital, mentre il Lombardia richiede tre giorni di ricovero, un regime imposto con un chiarissimo intento dissuasivo. Non bisogna distrarsi e mollare la presa: c’è un lento, ma inesorabile riassorbimento e svuotamento dei diritti a opera di quelle che un tempo chiamavamo ‘forze reazionarie’. Sta diminuendo il numero degli aborti, ma non diminuiscono i medici obiettori. Intanto cala moltissimo la natalità, in un modo preoccupante. Mettere insieme questi dati è complicato, ciascuno dà la propria lettura in base a pregiudizi ideologici.
Torniamo un momento ai suoi libri. Oltre ai testi scientifici ha scritto anche libri più divulgativi.
Dal 2005, dopo la pensione, mi sono dedicata a scritti più letterari. In Una bambina senza stella (Rizzoli) ho raccontato i ricordi della mia infanzia, resa difficile dalla guerra e dalle persecuzioni razziali, per convincere i genitori di oggi, spesso troppo preoccupati per il futuro dei figli, ad aver fiducia nelle loro risorse. Con l’ultimo libro, uscito quest’anno L’ospite più atteso, vivere e rivivere le emozioni della maternità, vorrei convincere le giovani donne a considerare per tempo la possibilità di avere un bambino. Non è certo un obbligo, ma un’esperienza viva e profonda che non merita di essere sopraffatta da altre incombenze.
C’è un’autocritica?
Come femministe, abbiamo spronato le nostre figlie a realizzarsi nella scuola, nel sociale, nella professione. Ma abbiamo trascurato il lato materno, che è altrettanto se non più importante. Oggi il valore dell’autorealizzazione professionale è stato acquisito. Nessuna ragazza sogna di fare la casalinga. Spetta alle giovani donne, non alle esose richieste della società, decidere se e quando vogliono diventare mamme. Per sensibilizzarle dobbiamo però raccontare alle nostre figlie quanto può essere intenso e gratificante divenire madri e che si può essere tali non solo partorendo, ma anche in modi simbolici, pensando e agendo maternamente.
Che pensa del divampare della questione molestie sessuali?
Dal mio punto di vista è un problema psicologico e morale che sta finalmente diventando coscienza comune e responsabilità condivisa. Spero solo che si modifichi il modo con cui le madri crescono i figli maschi, spesso inconsapevoli veicoli di una identità virile predatoria e violenta. Mi sembra che, dopo le accuse e le condanne, sia giunto il momento di stipulare nuove alleanze tra i sessi, accettando le reciproche differenze. Si deve partire dall’educazione perché i clichè culturali resistono, eccome! Con i figli maschi siamo molto indulgenti: possono essere disordinati, svogliati, assenti ma sono sempre simpatici. Dalle femmine pretendiamo che stiano composte, aiutino in casa, che siano brave a scuola…
Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Su questo fronte non c’è stato un grande miglioramento.
Io credo che il fattore decisivo sia la paura della dipendenza, denunciata dallo psicoanalista Donald Winnicot. Nei primi mesi di vita siamo stati tutti assolutamente dipendenti da una figura materna, cui dobbiamo la nostra sopravvivenza. Ma gli uomini provano una particolare insofferenza verso la dipendenza, un timore che si rivela acutamente nel momento dell’abbandono. I più fragili e immaturi reagiscono con la violenza: qualunque aggressore è convinto di difendersi da un pericolo. Purtroppo capita ancora che le donne considerino l’abuso del partner un segno d’amore. Ho sentito in tv, proprio in questi giorni, una donna affermare con compiacimento: “Mi picchiava come fossi sua moglie”. Sintomatico, no? Evidentemente resta ancora molto da fare.