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 2017  novembre 24 Venerdì calendario

Il fantasma di Igor

Era aprile quando Igor ha ucciso il tabaccaio Davide Fabbri a Budrio e la guardia ambientale volontaria Valerio Verri nelle valli del Mezzano. Otto mesi fa. Otto mesi di indagini costose e ancor più costose ricerche a tappeto: centinaia di carabinieri coinvolti, i migliori reparti dell’Arma schierati, le più sofisticate tecnologie investigative impiegate, sopralluoghi, intercettazioni telefoniche, rogatorie e missioni all’estero. In questo pezzo di Emilia, tra Bologna e Ferrara, si è mostrato lo Stato in tutta la sua geometrica potenza. Il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette, con un gesto insolito e fuori scala, decise di andare sul posto e metterci la faccia. «Lo prenderemo sicuramente», disse. E invece non l’hanno ancora trovato.
E sì che per tre volte, nel 2005, nel 2007 e nel 2010, l’avevano arrestato senza difficoltà. Rubava pentole, scarpe, vestiti. Una sera d’inverno arraffò il coniglio alla cacciatora che una coppia di anziani di Consandolo si stava cucinando nel tinello. Addirittura barattoli di Nutella, è successo più di una volta.Allora per fermarlo erano bastati un paio di marescialli svegli. Adesso, invece, è il latitante più famoso d’Italia dopo Matteo Messina Denaro. Ma chi è veramente Norbert Feher?
UNO, DUE, NESSUNO
Dove un ex complice ricorda di quando porta Norbert in Italia e di come Norbert diventa Igor per non tornare in Serbia Repubblica ha rivolto questa domanda alla persona più titolata a rispondere: il suo migliore amico. È un bandito croato di 52 anni di nome Ivan Pajdek e sta scontando trent’anni nel carcere di Modena per omicidio aggravato e rapine. Nell’ambiente criminale ferrarese, lo chiamano Uber. E il suo racconto comincia così.
«Norbert è nato a Subotica, in Serbia, proprio al confine con l’Ungheria. Frequentavo casa sua. I genitori erano divorziati e quindi l’ha cresciuto il nonno. Andammo d’accordo fin da subito. Poi quando il nonno morì, Norbert trovò un letto in affitto da una signora. Per campare faceva il fattore in campagna ma non gli bastavano i soldi, quindi aveva cominciato con piccoli furti che presto sono diventati rapine».
Subotica è sul confine tra l’Ungheria e la Serbia, ma non è né Ungheria né Serbia. È una terra di passaggio, crocevia di contrabbandieri, migranti e latitanti. Norbert è cresciuto in una casa di mattoni in periferia, dove capita di incontrare carri trainati da cavalli e sgangherati empori da cui esce musica italiana anni ‘70. Un angolo di medioevo in mezzo all’Europa.
«Norbert non ha alcun passato nell’esercito», dice Uber il croato. «Ha sempre coltivato il sogno di uscire dalla mediocrità della sua vita. Voleva diventare un personaggio, uno di cui la gente avrebbe parlato, nel bene o nel male».La strada della delinquenza aveva rapidamente condotto il giovane Norbert dietro le sbarre, accusato dal tribunale di Sremska Mitrovica di aver rapinato e violentato una quindicenne.
«Ci siamo ritrovati in cella insieme, riuscivamo a fare entrare telefonini e coltelli. Una volta per proteggermi si fece alcune settimane in isolamento al posto mio… Quando sono uscito gli ho reso il favore, aiutandolo a evadere».
Liberi, i due vanno a cercare fortuna all’estero. È Uber a portare Norbert in Italia nel 2005 e a presentargli alcuni italiani di Cesenatico che lo introducono nel mondo della mala nostrana. Norbert è inseguito da un mandato di arresto delle autorità serbe, ma ha un’idea. Per evitare il rimpatrio, si inventa un alter ego: Igor Vaclavic, russo, nato a Tashkent in Uzbekistan il 21 ottobre 1976. Una persona che non esiste, e per due volte le procedure di espulsione si inceppano su questo trucchetto.
Igor il russo, così si presenta Norbert ai criminali della zona e così declinerà se stesso davanti a giudici, avvocati, sbirri. Anche in Italia, infatti, per lui è un continuo dentro e fuori dal carcere.
«Quando è uscito nel gennaio 2015 l’ho portato a Berra dove stavo e dove lui ha conosciuto i miei contatti». A Berra, sul Po, a 38 chilometri da Ferrara. La zona dei nomadi slavi la chiamano «il campo», ma in realtà è un piccolo quartiere di casette popolari e qualche roulotte. Per due mesi Igor è ospite di Afrim Bejzaku in via Bosco. Ancora Uber il croato: «Vivevamo di piccoli furti: rame, auto, portafogli. Il guadagno, però, era basso. Norbert insistette per rendere più proficua la nostra attività e allora passammo alle rapine».
ARANCIA MECCANICA
Di come un ladro di Nutella mette su una banda feroce e si trova costretto a scappare a Valencia
Il «povero mentecatto» Igor, insieme a Uber il croato, insegue il salto di qualità. I due arruolano un terzo amico, uno slovacco diciannovenne di nome Patrik Ruszo, e mettono su una batteria per ripulire le ricche ville della zona.
La stagione delle rapine è breve e violenta. Dura dal 26 luglio al 9 settembre del 2015, meno di un’estate.
Il primo colpo è alle porte di Ferrara: entrano nella casa di Alessandro Colombani, lo legano mani e piedi e lo prendono a bastonate. Il bottino, magro: un cellulare e il bancomat di Colombani, con cui la sera stessa prelevano 250 euro.
A fine luglio, incappucciati, attaccano a Mesola l’abitazione di Emma Santi, una signora di 93 anni a cui rubano i gioielli. I parenti la ritrovano due giorni dopo, con la bocca sigillata da un nastro adesivo, i polsi e le caviglie legati con fascette di plastica. A un passo dalla morte.
Per il terzo colpo scelgono la vecchia casa colonica del novantenne Giulio Bertelli, sempre nel Ferrarese. Con una grossa pinza d’acciaio Uber minaccia di sfregiare Cristina, la figlia di Bertelli, le tocca il seno e le propone un rapporto sessuale. Lei rifiuta, pregandolo di non farle del male. Gli altri strappano i fili del telefono, vanno al piano di sopra, frugano per cinque ore. Prima di andarsene minacciano il vecchio Bertelli: «Se chiami la polizia torniamo e violentiamo tua figlia con una sbarra di ferro». Se ne vanno con la Fiat Tipo di Cristina, carica di refurtiva: gioielli, vestiti, pentole, posate, scarpe, valigie e un telefonino Lg.
La piega da Arancia Meccanica è il segno che la situazione sta per sfuggire di mano. Si arriva al colpo del 9 settembre, quando ci scappa il morto.
I rapinatori incappucciati seguono il “protocollo”: violenti e pasticcioni, legano le mani e i piedi di Pierluigi Tartari sul pavimento della sua abitazione di Aguscello, lo pestano e gli infilano uno straccio in bocca, sigillando le labbra con del nastro adesivo. Lo straccio finisce sotto la lingua di Tartari. L’uomo soffoca nel silenzio, dopo lunghi minuti di agonia.Per puro caso Igor, quella sera, non c’è. Ha litigato con Uber per la spartizione del bottino e questi è infastidito dalla sua eccessiva intraprendenza.
La morte di Tartari fa molto rumore. Le indagini della polizia di Ferrara durano una manciata di giorni. Uber lo prendono quasi subito, la polizia slovacca lo arresta il 3 ottobre e lo consegna ai colleghi italiani. Con lui, finiscono in cella i due complici dell’omicidio, Patrik Ruszo e il giovane Constantin Fiti, un ladro di biciclette che quella sera ha sostituito Igor nella batteria.
Igor è di nuovo solo. Torna nell’unico posto che ai suoi occhi somiglia a una casa: il “campo” di Berra. Le acque si devono calmare e lì può stare tranquillo.
La situazione, pensa, non si è messa bene, Uber e Ruszo per ottenere sconti di pena se lo staranno certamente vendendo alla polizia. È venuto il momento di indossare di nuovo i panni anonimi di Norbert.
Si sposta in Spagna. Usa il profilo Facebook, che porta anche il nome da convertito al cattolicesimo, come un turista. Norberto Ezechiele Feher posta selfie che ne documentano la presenza a Valencia. Rasato di fresco col pizzetto in evidenza, occhialetti con una montatura leggera, capelli tagliati corti, giacche di seconda scelta e cravatte scure. La smorfia beffarda. A Natale del 2015 fa gli auguri in spagnolo, ma nella primavera seguente è di nuovo in Italia. Portomaggiore, Ferrara, Lugo, Mantova, Argenta. La zona nella quale può sollecitare la sua rete di agganci, fatta di ex compagni di cella, ricettatori e informatori, e ottenere copertura.
Il 16 ottobre del 2016 a Ferrara spiccano un mandato di arresto nei suoi confronti le rapine in villa. Come prevedeva se lo sono venduto e l’unica cosa da fare è darsi alla macchia.Poi il lupo si sveglia. Sei mesi di letargo sono sufficienti. Norbert torna Igor, e Igor ha un piano. Trovare soldi per trasferirsi all’estero per sempre. Tra il 29 e il 30 marzo entra in azione e per i successivi dieci giorni terrorizzerà due province d’Italia.
La guardia giurata Piero Di Marco, dipendente della Securpol, riceve la chiamata dalla sede centrale alle 2 di notte, mentre è a Gualdo, al volante della sua Fiat Panda bianca. È scattato di nuovo l’antifurto alla piadineria “Rita” di Consandolo, come la sera precedente. Arriva alle 2.20 e parcheggia davanti alla stazione ferroviaria. Fa un giro intorno alla piadineria. Ne fa un altro. Controlla porte e finestre, nessun segno di effrazione. Ritorna verso la Panda, per comunicare con la centrale. Non fa in tempo.
Uno colpo di fucile sfonda la portiera dell’auto, il vetro laterale esplode. Da una fratta sbuca un uomo.
«Butta la pistola e stai fermo. Buttati in terra. Non guardare. Stai fermo, non guardarmi. Non guardarmi».
L’uomo è corpulento, indossa pantaloni mi metici di colore chiaro e un paio di anfibi. È alto un metro e ottanta. Ha l’accento dell’est. Con un braccio regge un fucile da caccia a canne doppie, con l’altro un telefonino che tiene vicino all’orecchio. Piero Di Marco si inginocchia. L’uomo si avvicina e gli sfila dalla fondina la sua Smith& Wesson argentata calibro 9 con quindici colpi. Il proiettile non è in canna.
«È della Securpol. Ho preso l’arma». Sta parlando con qualcuno al cellulare, o finge di farlo: dall’analisi della cella telefonica non risulterà alcuna telefonata.
Poi si rivolge a Di Marco: «Hai un altro caricatore? Hai altre cose da darmi?».
«No».
«Sei ferito?».
«Sì».
«Stai fermo. Non muoverti. Aspetta e chiama l’ambulanza».
L’uomo col fucile sparisce nella notte, a terra rimangono una cartuccia e due pallini. E una guardia impaurita, con una piccola ferita allo zigomo.
La mattina dopo, nella stazione dei carabinieri di Portomaggiore che dista 3 chilometri dalla piadineria, un vecchio maresciallo legge il verbale della guardia. Un uomo così descritto lo conosce, l’ha già incontrato. È quell’Igor che nel 2010 fece sei rapine ad Argenta vestito da cacciatore con un’accetta in mano. Lo stesso che qualche anno prima si era guadagnato le prime pagine delle cronache locali perché derubava la gente minacciandola con arco e frecce. Il Ninja, lo chiamavano. Viveva nei casolari diroccati, usciva solo con la luna piena. E in un casolare disabitato a Boccaleone, tra Consandolo e Argenta, lo avevano catturato mentre dormiva.
L’intuizione del maresciallo – come vedremo – non è un dettaglio. Fissa un momento che si rivelerà cruciale: quello in cui, per la prima volta, i carabinieri hanno un sospettato ufficiale. È il 30 marzo. Per ora Igor Vaclavic è accusato solo di rapina. Per ora.
L’OMICIDIO FABBRI
Dove si racconta come una strana rapina in un bar di Budrio finisce nel sangue e dove da una fattoria sparisce un Fiorino bianco ( ma nessuno lo sa) Al civico 47 di via Riccardina, a Budrio, c’è il bar-tabaccheria Gallo. Igor in tasca ha la Smith& Wesson argentata, ma non gli basta. Ruba un fucile da cacciatore in uno dei tanti casolari deserti, ruba anche una mountain bike e raggiunge l’edificio scolorito del bar Gallo. Le telecamere interne al locale registrano una scena assai particolare. Igor con la faccia nascosta dal bavero entra col fucile da caccia spianato, dice qualcosa, probabilmente chiede dei soldi, ma nessuno nel bar si scompone. Uno degli avventori rimane persino con le mani in tasca. Davide Fabbri, il barista, si alza con calma, fa per andare verso la cassa. Poi con un balzo gli prende il fucile. I due lottano, parte un colpo a vuoto, si spingono in un’altra sala fuori dall’inquadratura. Si sente un secondo colpo. È la Smith& Wesson. Il barista è morto. Igor esce dal locale, incrociando la moglie di Fabbri che gli chiede: «Vuoi uccidere anche me?».
No, Igor vuole solo scomparire nel nulla. Il suo piano, qualunque fosse, è fallito. Nelle prime ore dopo il delitto si parla di una rapina finita male. Ma agli investigatori qualcosa non torna, sono convinti che la vittima e il suo assassino si conoscessero già da prima, che tra i due ci fosse una faccenda di denaro non risolta.
L’improvvisa reazione del barista ha mandato tutto all’aria e nel di pochi minuti i carabinieri gli saranno addosso. Lui lo sa, ma sa anche di poter contare su un alleato che gli altri non hanno. Il territorio. Lo conosce benissimo. Lo ha battuto per anni palmo a palmo: è pieno di fattorie poco abitate che rigurgitano armi da caccia, magazzini stracolmi di cibo e conserve e, tra coltivazioni di mele fuji e laghetti per l’allevamento delle anguille, canali. Chilometri di canali. L’ideale per confondere le tracce.
Sulla sua mountain bike pedala veloce verso una fattoria lì vicino, a Mezzolara di Budrio. Appartiene a un medico della zona, Pietro Caliceti, che non ci va quasi mai. Nel fienile è parcheggiato un Fiorino bianco modello pick-up, le chiavi sono nel cruscotto. Igor trascorre lì la notte ascoltando il rumore delle sirene. All’alba si dilegua con il Fiorino.
RICERCATO A METÀ
Quando tutti sanno che l’assassino è Igor ma nessuno lo dice al questore di Ferrara
Del Fiorino, però, i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Bologna ai quali il pm bolognese Marco Forte ha affidato il caso dell’omicidio, non sanno perché Caliceti si accorgerà della scomparsa giorni dopo. Sono ugualmente molto fiduciosi, non foss’altro perché a guidarli c’è uno degli investigatori migliori d’Italia, il colonnello Valerio Giardina. È a un passo dal diventare generale, gode della stima delle alte gerarchie dell’Arma grazie ai successi in Calabria. Su tutti, la cattura del “Supremo”, il boss della ndrangheta Pasquale Condello. L’ha incastrato grazie a una trovata geniale: nascondere nel casco del guardaspalle di Condello una microtelecamera per seguirne i movimenti.
Il giorno dopo la morte di Fabbri i carabinieri di Bologna hanno più certezze che dubbi. Le testimonianze della guardia giurata Piero Di Marco e della moglie di Fabbri, Maria Sirica coincidono: «Uomo corpulento, abbigliamento da caccia, buona padronanza della lingua italiana, forte inflessione dell’Est Europa».
Mettono sotto intercettazione le due schede telefoniche di Igor, di cui già conoscono la doppia identità serba e russa. Si concentrano in particolare sul 3456056610 e chiedono di localizzare il suo Sony Ericsson dual sim. Ascoltano anche il cellulare di un certo Luigi Scrima, ex compagno di cella di Igor. Ma si rivela tutto inutile, i telefoni sono muti e l’ultima traccia attiva risale al 20 marzo, quando aggancia per l’ultima volta la cella di Molinella.
Da quel dato, ormai vecchio, gli inquirenti ripartono. Otto carabinieri e alcune unità cinofile, quella domenica stessa, fanno i primi rastrellamenti nei casolari attorno alla caserma di Molinella. Tutti i Comandi dell’Emilia Romagna sono allertati da una mail informale inviata alle 15.01 dalla Centrale operativa di Bologna, che trasmette una scheda segnaletica di Igor per avvertire i servizi esterni in corso «data l’assoluta pericolosità del soggetto armato di fucile da caccia e pistola semi-automatica». Mandano la mail alla questura di Bologna, ma non a quella di Ferrara nonostante avesse appena concluso con successo l’indagine sulla banda di Igor e nonostante il serbo fosse notoriamente di casa proprio nel Ferrarese. Vedremo più avanti perché non sono dettagli. 
 *** 
Il 3 aprile, mentre l’agenzia Ansa e i quotidiani locali divulgano identità e foto del fuggitivo, quattro carabinieri fanno una scoperta interessante. In un rustico senza tetto di Consandolo, lungo la ferrovia, trovano i resti di un bivacco recente: una valigia grigia vuota, una camicia verde scuro taglia 50 L, un copriabito cerato nero, la scatola di uno smartphone Wiko modello Rainbow “dual sim” con il codice Imei abraso, un succo di frutta con scadenza gennaio 2018, due bottiglie di Coca Cola Zero piene, una di Jack Daniel’s vuota, il foglio di istruzioni di un termometro digitale, una cravatta colorata, un fornelletto da campeggio con bombola di butano, due apparecchi per brasatura ideal gas. «La maggior parte dei beni rinvenuti – scrivono nel loro rapporto – risulta in vendita dalla catena di distribuzione Lidl, presente negli abitati di Argenta, Portomaggiore, Molinella e Lugo». Esattamente i luoghi di Igor.E però, con mossa poco comprensibile, manderanno gli oggetti al Ris per l’esame del Dna solo due settimane dopo, quando ne formalizzeranno il sequestro. Cioè ben nove giorni dopo l’omicidio Verri. Un sintomo di una ricerca confusa fin dalle prime battute, scandita da decine di avvistamenti fasulli. L’unica segnalazione utile, invece, arriva in ritardo.La mattina del 4 aprile, alle sei e mezza, un pakistano trova sulla strada che costeggia il fiume Reno, tra Argenta e Molinella, un uomo con un accetta. Rallenta, ma non si ferma e lo sconosciuto colpisce la lamiera del suo furgoncino. Il pakistano non denuncia niente ai carabinieri. Lo farà soltanto dopo alcuni giorni, riconoscendo Igor da una fotografia, in caserma. La preziosa informazione è ormai inservibile.Chiuso nella sua cella, Uber il croato ce l’ha ancora con Igor tanto da voler aiutare le ricerche. Il 5 aprile succedono due cose: a Molinella arrivano i primi dieci Cacciatori di Calabria, il reparto scelto dell’Arma specializzato nella cattura dei latitanti in Aspromonte; a Bologna, in Corte d’assise d’appello, si tiene l’udienza finale del processo per la rapina finita con l’omicidio a casa di Tartari.Uber non ha alcuna possibilità di essere assolto, ne è consapevole. Ma ha altro per la testa, quel giorno. Sostiene di sapere dove si nasconda Igor. La lettura della sentenza che conferma i trent’anni da scontare quasi neanche la sente, appena finisce chiede di parlare con il pm della direzione distrettuale antimafia di Bologna, Stefano Orsi. Una prima conversazione, a cui ne sono seguite altre.
«Sono stato io a fornire agli investigatori i nomi e i contatti dei familiari di Igor. Ho spiegato loro che sicuramente all’inizio si nascondeva nei dintorni di Portomaggiore, negli ambienti dove lo avevo portato anni fa, prima che cominciasse a camminare con le sue gambe e a imbastire una rete di contatti».
Uber racconta di essersi anche offerto di accompagnare di persona gli investigatori in alcuni campi nomadi della zona, e in particolare a Berra. «Con me quella gente avrebbe avuto un atteggiamento certamente più collaborativo. In carcere parlo molto con Ruszo».«Quando sua madre Rosy è venuta a trovarlo – racconta – ci ha detto della rapina alla guardia giurata di Consandolo, Rosy in persona ha consigliato a Igor di fuggire. Si è offerta lei di organizzargli la fuga verso la Slovacchia. Ho detto ai carabinieri che avrebbero fatto bene a microfonarmi».
I carabinieri, però, pensano che Uber il croato sia soltanto un ergastolano che vuole farsi un giro fuori, e magari scappare. Grazie ma non ne abbiamo bisogno, gli dicono.
IL SECONDO OMICIDIO
Di come due guardie ecologiche scambiano Igor per un addestratore di cani e Igor scambia due guardie ecologiche per carabinieri. E ne uccide una Igor a questo punto si sente braccato. Ha visto la sua foto segnaletica in televisione. Se lo prendono, tra l’omicidio di Budrio e le rapine con Uber, l’ergastolo non glielo toglie nessuno.Più o meno a questo pensa quando si accorge che due tipi lo stanno guardando da lontano.È la sera dell’otto aprile. Il suo Fiorino è parcheggiato in mezzo all’erba della strada Mondonuovo, che collega Ostellato a Portomaggiore. Proprio la zona che Uber aveva indicato agli inquirenti.Quei due tipi, però, non sono carabinieri. Sono Valerio Verri, guardia ambientale, e Marco Ravaglia, agente della polizia provinciale. «Avevamo appena terminato un servizio di controllo su una abitazione di pescatori di frodo romeni – mette a verbale Ravaglia – Tra le 17.30 e le 18, seguendo la strada del Mezzano, abbiamo visto alla nostra sinistra un Fiorino». Parcheggiato in un viottolo, sopra l’erba alta. I due si insospettiscono. Fermano la macchina a 500 metri di distanza e ciascuno con il suo binocolo cerca di capire se si tratta di un addestratore abusivo di cani. «Nel qual caso gli avremmo fatto una multa». Con i binocoli, notano uno salire in macchina «vestito da caccia e con un cappello a tesa larga». I due decidono di avvicinarsi, nonostante nel gruppo whatsapp della Provinciale Ravaglia stesso avesse inoltrato giorni prima la foto segnaletica di Igor e il suo capo avesse avvertito: «Se lo si vede, chiamare i carabinieri e stare lontano». Esattamente l’opposto di quello che fanno.
Il Fiorino fa subito un’inversione a U. Attraversa un campo coltivato e torna sulla strada asfaltata. Ravaglia e Verri si lanciano all’inseguimento.La Panda di servizio è blu e rossa, i colori dei Carabinieri. Igor si spaventa e allora prova il tutto per tutto. Accelera improvvisamente e si infila in un’altra stradina laterale. Dove parcheggia e si nasconde. Pochi secondi dopo arrivano Verri e Ravaglia. Si fermano a dieci metri di distanza. Ravaglia osserva che dal cassone, sotto un telo, spunta la sagoma di una mountain bike. Non sa che farebbe bene a scappare. Invece apre la portiera.
Appena mette il piede a terra, viene investito da una serie di colpi di fucile. Uno lo prende sul braccio. «Mentre ero a terra sento Verri che grida: “Hai sparato a un agente della polizia provinciale”. È stata l’ultima cosa che ha detto. Ho sentito un altro colpo. Ero a terra. Mi sono preparato alla morte. Quell’individuo si stava avvicinando. Mi ha messo un piede sul collo e mi ha girato la faccia. Ho sentito sul viso uno scarpone pesante con la suola tipo carrarmato. Ho deciso di fingermi morto, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro».Igor gli prende la pistola dalla fondina.«Faccia di merda», dice, poi dalla cintura gli prende l’altro caricatore. Sale sul furgone e fa per andarsene. Ravaglia giace, finto morto, proprio davanti alla traiettoria del Fiorino. Così Igor scende di nuovo e lo trascina da un lato della carreggiata. Risale a bordo e sparisce.Secondo Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Verri, la morte del volontario ambientale si poteva evitare. «Se i carabinieri avessero informato la questura e la prefettura di Ferrara della possibile presenza di Igor nella provincia, forse sarebbe stata diramata un’allerta specifica che avrebbe messo in guardia Ravaglia e Verri. Magari corredata da un’ordinanza per interrompere temporaneamente i servizi di pattugliamento esterno delle guardie ecologiche». Per il Comando generale dei carabinieri, invece, non è così.E però il legale della famiglia Verri ha delle buone carte da giocare. Soprattutto una, la nota informativa della questura di Ferrara ai pm, nella quale si legge: «Nessun elemento investigativo, o di rilievo per l’ordine e la sicurezza pubblica, veniva comunicato in questura né in sede di Riunione tecnica di coordinamento. Neppure nei giorni successivi, e fino al 10 aprile veniva mai evidenziata la possibilità che l’autore dei fatti delittuosi di cui sopra, avvenuti anche in questa provincia e nella provincia di Bologna, fosse la stessa persona e che potesse identificarsi in Igor Vaclavic, ben noto ai nostri uffici».dice Imei abraso, un succo di frutta con scadenza gennaio 2018, due bottiglie di Coca Cola Zero piene, una di Jack Daniel’s vuota, il foglio di istruzioni di un termometro digitale, una cravatta colorata, un fornelletto da campeggio con bombola di butano, due apparecchi per brasatura ideal gas. «La maggior parte dei beni rinvenuti – scrivono nel loro rapporto – risulta in vendita dalla catena di distribuzione Lidl, presente negli abitati di Argenta, Portomaggiore, Molinella e Lugo». Esattamente i luoghi di Igor.E però, con mossa poco comprensibile, manderanno gli oggetti al Ris per l’esame del Dna solo due settimane dopo, quando ne formalizzeranno il sequestro. Cioè ben nove giorni dopo l’omicidio Verri. Un sintomo di una ricerca confusa fin dalle prime battute, scandita da decine di avvistamenti fasulli. L’unica segnalazione utile, invece, arriva in ritardo.La mattina del 4 aprile, alle sei e mezza, un pakistano trova sulla strada che costeggia il fiume Reno, tra Argenta e Molinella, un uomo con un accetta. Rallenta, ma non si ferma e lo sconosciuto colpisce la lamiera del suo furgoncino. Il pakistano non denuncia niente ai carabinieri. Lo farà soltanto dopo alcuni giorni, riconoscendo Igor da una fotografia, in caserma. La preziosa informazione è ormai inservibile.Chiuso nella sua cella, Uber il croato ce l’ha ancora con Igor tanto da voler aiutare le ricerche. Il 5 aprile succedono due cose: a Molinella arrivano i primi dieci Cacciatori di Calabria, il reparto scelto dell’Arma specializzato nella cattura dei latitanti in Aspromonte; a Bologna, in Corte d’assise d’appello, si tiene l’udienza finale del processo per la rapina finita con l’omicidio a casa di Tartari.
Uber non ha alcuna possibilità di essere assolto, ne è consapevole. Ma ha altro per la testa, quel giorno. Sostiene di sapere dove si nasconda Igor. La lettura della sentenza che conferma i trent’anni da scontare quasi neanche la sente, appena finisce chiede di parlare con il pm della direzione distrettuale antimafia di Bologna, Stefano Orsi. Una prima conversazione, a cui ne sono seguite altre.«Sono stato io a fornire agli investigatori i nomi e i contatti dei familiari di Igor. Ho spiegato loro che sicuramente all’inizio si nascondeva nei dintorni di Portomaggiore, negli ambienti dove lo avevo portato anni fa, prima che cominciasse a camminare con le sue gambe e a imbastire una rete di contatti».
Uber racconta di essersi anche offerto di accompagnare di persona gli investigatori in alcuni campi nomadi della zona, e in particolare a Berra. «Con me quella gente avrebbe avuto un atteggiamento certamente più collaborativo. In carcere parlo molto con Ruszo».«Quando sua madre Rosy è venuta a trovarlo – racconta – ci ha detto della rapina alla guardia giurata di Consandolo, Rosy in persona ha consigliato a Igor di fuggire. Si è offerta lei di organizzargli la fuga verso la Slovacchia. Ho detto ai carabinieri che avrebbero fatto bene a microfonarmi».I carabinieri, però, pensano che Uber il croato sia soltanto un ergastolano che vuole farsi un giro fuori, e magari scappare. Grazie ma non ne abbiamo bisogno, gli dicono.
IL SECONDO OMICIDIO
Di come due guardie ecologiche scambiano Igor per un addestratore di cani e Igor scambia due guardie ecologiche per carabinieri. E ne uccide una Igor a questo punto si sente braccato. Ha visto la sua foto segnaletica in televisione. Se lo prendono, tra l’omicidio di Budrio e le rapine con Uber, l’ergastolo non glielo toglie nessuno.Più o meno a questo pensa quando si accorge che due tipi lo stanno guardando da lontano.È la sera dell’otto aprile. Il suo Fiorino è parcheggiato in mezzo all’erba della strada Mondonuovo, che collega Ostellato a Portomaggiore. Proprio la zona che Uber aveva indicato agli inquirenti.Quei due tipi, però, non sono carabinieri. Sono Valerio Verri, guardia ambientale, e Marco Ravaglia, agente della polizia provinciale. «Avevamo appena terminato un servizio di controllo su una abitazione di pescatori di frodo romeni – mette a verbale Ravaglia – Tra le 17.30 e le 18, seguendo la strada del Mezzano, abbiamo visto alla nostra sinistra un Fiorino». Parcheggiato in un viottolo, sopra l’erba alta. I due si insospettiscono. Fermano la macchina a 500 metri di distanza e ciascuno con il suo binocolo cerca di capire se si tratta di un addestratore abusivo di cani. «Nel qual caso gli avremmo fatto una multa». Con i binocoli, notano uno salire in macchina «vestito da caccia e con un cappello a tesa larga». I due decidono di avvicinarsi, nonostante nel gruppo whatsapp della Provinciale Ravaglia stesso avesse inoltrato giorni prima la foto segnaletica di Igor e il suo capo avesse avvertito : «Se lo si vede, chiamare i carabinieri e stare lontano». Esattamente l’opposto di quello che fanno.
Il Fiorino fa subito un’inversione a U. Attraversa un campo coltivato e torna sulla strada asfaltata. Ravaglia e Verri si lanciano all’inseguimento.La Panda di servizio è blu e rossa, i colori dei Carabinieri. Igor si spaventa e allora prova il tutto per tutto. Accelera improvvisamente e si infila in un’altra stradina laterale. Dove parcheggia e si nasconde. Pochi secondi dopo arrivano Verri e Ravaglia. Si fermano a dieci metri di distanza. Ravaglia osserva che dal cassone, sotto un telo, spunta la sagoma di una mountain bike. Non sa che farebbe bene a scappare. Invece apre la portiera.Appena mette il piede a terra, viene investito da una serie di colpi di fucile. Uno lo prende sul braccio. «Mentre ero a terra sento Verri che grida: “Hai sparato a un agente della polizia provinciale”. È stata l’ultima cosa che ha detto. Ho sentito un altro colpo. Ero a terra. Mi sono preparato alla morte. Quell’individuo si stava avvicinando. Mi ha messo un piede sul collo e mi ha girato la faccia. Ho sentito sul viso uno scarpone pesante con la suola tipo carrarmato. Ho deciso di fingermi morto, chiudendo gli occhi e trattenendo il respiro».
Igor gli prende la pistola dalla fondina.«Faccia di merda», dice, poi dalla cintura gli prende l’altro caricatore. Sale sul furgone e fa per andarsene. Ravaglia giace, finto morto, proprio davanti alla traiettoria del Fiorino. Così Igor scende di nuovo e lo trascina da un lato della carreggiata. Risale a bordo e sparisce.Secondo Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Verri, la morte del volontario ambientale si poteva evitare. «Se i carabinieri avessero informato la questura e la prefettura di Ferrara della possibile presenza di Igor nella provincia, forse sarebbe stata diramata un’allerta specifica che avrebbe messo in guardia Ravaglia e Verri. Magari corredata da un’ordinanza per interrompere temporaneamente i servizi di pattugliamento esterno delle guardie ecologiche». Per il Comando generale dei carabinieri, invece, non è così.
E però il legale della famiglia Verri ha delle buone carte da giocare. Soprattutto una, la nota informativa della questura di Ferrara ai pm, nella quale si legge: «Nessun elemento investigativo, o di rilievo per l’ordine e la sicurezza pubblica, veniva comunicato in questura né in sede di Riunione tecnica di coordinamento. Neppure nei giorni successivi, e fino al 10 aprile veniva mai evidenziata la possibilità che l’autore dei fatti delittuosi di cui sopra, avvenuti anche in questa provincia e nella provincia di Bologna, fosse la stessa persona e che potesse identificarsi in Igor Vaclavic, ben noto ai nostri uffici».
La questura di Ferrara non è stata coinvolta nelle indagini su Igor per scelta del procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, che ha ritenuto di non dover allargare il coordinamento investigativo alla polizia. Neanche quando, era il 3 aprile, i carabinieri di Portomaggiore trovarono uno dei bivacchi ad Argenta, nel Ferrarese.
Adesso è l’8 aprile. Igor è sparito. E i dieci giorni di terrore devono ancora conoscere il loro epilogo.
Intorno alle 17, mentre Verri e Ravaglia stanno inseguendo Igor nelle Valli del Mezzano, il dottor Carlo Caliceti scopre che qualcuno gli ha rubato il Fiorino. Chiama il 112 e denuncia il furto di un «vecchio pick- up bianco» sparito dal suo fienile a Budrio. Non sa dire quando, però. Manca dalla sua casa di campagna dalla mattina del primo aprile. Il 112 gira la segnalazione alle macchine di pattuglia e le manda a raccogliere la denuncia di Caliceti. Due ore dopo, il vice brigadiere Stefano Mancinelli e i due carabinieri scelti Antonio Suliani e Ivan Chiadroni, entrano in servizio. In borghese, a bordo di una Fiat Grande Punto “civetta”, vanno a rimpiazzare i colleghi alle prese con i primi rilevamenti del «nuovo omicidio», per presidiare Budrio. Via radio li avvertono del furto del Fiorino bianco. Poco dopo il comandante li contatta ancora: «Su quel pick- up potrebbe esserci Igor».
Alle 19.45 sono a Consandolo, non lontano dal bar di Budrio, i tre carabinieri vedono arrivare in direzione opposta un Fiorino bianco, che poco prima di superarli svolta in una stradina laterale, via Cavo Spina. Contattano la centrale. «Abbiamo agganciato un veicolo simile alla descrizione».
La Punto fa inversione e imbocca quella stradina. L’inseguimento dura alcuni minuti. Il sole è tramontato da poco ma l’aria è ancora luminosa. Sono riusciti a non insospettire il fuggiasco e a notare nel cassone la mountain bike coperta da un telo. Nella zona non piove da parecchio e il Fiorino alza molta polvere. «Non vediamo bene… Non abbiamo capito quanta gente c’è a bordo», dicono via radio.
Passa qualche secondo. «Ci teniamo a debita distanza, voi mandateci qualcuno». La prima richiesta di rinforzi parte poco prima delle otto.
Igor capisce e si ferma. Via Cavo Spina è stretta e due auto non ci passano. Si bloccano anche i carabinieri. Le macchine sono l’una di fronte all’altra, in mezzo alla pianura. A spezzare l’orizzonte solo un piccolo pioppeto e un boschetto triangolare, cento metri per lato, che spunta come un ciuffo alla sinistra dei carabinieri. La luce del giorno è quasi finita. L’immobilità della scena è quella di un western, in salsa emiliana. Igor muove per primo, apre la portiera ed esce dal Fiorino, fingendo un guasto alla macchina. I carabinieri scendono dalla Punto e si schierano, due dietro la macchina, il terzo, l’autista, riparato dallo sportello.
Igor torna in macchina, ingrana la prima e si avvicina lentamente. Mancinelli, il più anziano dei tre, punta la pistola verso di lui: «Scendi subito, mani alzate e bene in vista». Ma Igor avanza ancora. Mancinelli si gira verso i colleghi: «Ragazzi se è… spariamo». Igor non è alla portata della Beretta, e sembra non avere armi. Il regolamento dei carabinieri vieta di sparre in queste condizioni. Igor si infila col Fiorino nel boschetto.
Lo raggiungono. La portiera è aperta. Dietro c’è lui, nascosto.
Igor li vede, rapido scappa dietro il cassone, sempre protetto dalla portiera. Passano pochi secondi. Mancinelli ripete di uscire mani in alto. Dalla centrale operativa gli viene detto di «dare la priorità alla sicurezza degli operanti, i rinforzi sono in arrivo».
Zaino in spalla, il serbo si ripara dietro un albero. Senza mai perderlo di vista, i tre militari si piazzano ai tre lati del boschetto. Il più delicato è quello che dà sul vasto campo. Da dietro uno dei macchinari per l’irrigazione il carabiniere tiene d’occhio Igor, a una cinquantina di metri, quindi sempre fuori tiro. Ma i minuti passano lentissimi, è buio ormai, e i rinforzi non arrivano. Il militare strizza gli occhi nell’oscurità cercando di non confondere il verde mimetico della giacca con quello della radura.
Due forestieri, con una macchina presa a nolo e Google maps, dalla caserma di Molinella al boschetto impiegano 15 minuti. I carabinieri ci mettono più di mezz’ora. E Igor non si vede più.
Arriva la prima pattuglia che sono quasi le otto e mezza, Mancinelli mette anche i suoi due colleghi a controllare il perimetro del boschetto, in attesa dei Cacciatori di Calabria. Anche se non lo vedono più, non può essersi mosso di lì, pensa. I Cacciatori arrivano qualche minuto dopo. Ma non possono intervenire nel bosco. Occorre aspettare il Gis ( Gruppo d’intervento speciale) e così gli specialisti della caccia all’uomo possono solo accendere i visori notturni e i termorilevatori. Il verdetto è devastante: Igor non c’è più. Se n’è andato.
Servirebbero i cani molecolari, quelli addestrati a seguire le tracce dei fuggiaschi per chilometri. Servirebbero subito. Igor, a piedi, non è andato lontano. «Richiesta negata», rispondono però dalla centrale. I cani sono impegnati a bonificare un’altra zona, due chilometri più in là, dove una telefonata ha segnalato un signore sospetto che stava correndo. I Cacciatori spiegano che è impossibile che Igor sia arrivato fino a lì in così poco tempo. «La verità – si sfoga uno di loro – è che qui abbiamo una Ferrari, ma chi la sta guidando?».
Ormai è notte inoltrata. La signora Gina, una coltivatrice di deliziose mele ferrarese di origine siciliana che vive dirimpetto al boschetto, sente urlare. Si affaccia alla finestra e vede decine di carabinieri che litigano tra di loro. Volano parole grosse. Sono quelli del Gis che si sono arrabbiati perché militari della compagnia locale, visto il loro ritardo, avevano deciso di perlustrare il boschetto da soli.
I cani molecolari arrivano sul posto la mattina del giorno dopo. Individuano l’odore di Igor, ne seguono la scia e mostrano a tutti i presenti come ha fatto a scappare. Coperto dall’oscurità e dall’erba alta, si è lasciato rotolare fin dentro il canale di scolo che separa il boschetto dal campo arato. I cani proseguono per qualche chilometro, salgono sopra il ponte di Marmorta. E si fermano a metà, senza la minima idea di dove andare.
UNO CONTRO MILLE
Dove si racconta della rete che può aver aiutato Igor a fuggire e di una perquisizione particolarmente inopportuna
Igor è un fantasma, un fantasma che ha già ucciso due persone. Si è trasformato in un caso nazionale, giornali e tv non parlano d’altro. Da Roma chiamano il colonnello Giardina e gli mettono a disposizione tutta l’Arma. Anche perché il suo Comandante generale, Tullio Del Sette, non sta passando un momento sereno per via dello scandalo Consip in cui è coinvolto, e la cattura di Igor, spacciato per una sorta di Rambo veterano dell’Armata Russa, sarebbe manna dal cielo.
Giardina, allora, fa quello che faceva in Calabria. Individua una zona rossa e la satura con le forze speciali per far sentire la presenza dello Stato, innervosire il fuggiasco ed evitare altro sangue. Gli mandano gli uomini più addestrati e gli strumenti più moderni: il Gis, i paracadutisti del Tuscania, i Cacciatori di Sardegna, i nuclei cinofili, gli elicotteristi, i microdroni, un drone Predator dell’Aeronautica. Due riunioni al giorno, nella caserma di Molinella. Vi partecipano anche i magistrati Marco Forte di Bologna e Alberto Savino di Ferrara. Il primo scriverà in un atto ufficiale che «c’erano mille uomini a dare la caccia a Igor». Non è così. In realtà gli effettivi sono circa 350, impegnati ventiquattrore al giorno ma spalmati su cinque turni.
Il 10 aprile si presenta a Molinella il Comandante Del Sette in persona, gli hanno assicurato che lo stanno per prendere.
Effettivamente Igor è lì, dentro la zona rossa. Probabilmente a pochi metri dalle avanguardie del Tuscania. Passano i giorni, ma non riescono a stanarlo. C’è qualcosa che non torna.
Capiscono troppo tardi ciò che il “povero mentecatto” è realmente diventato negli ultimi due anni. Non è più un solitario sociopatico, ha sviluppato i rapporti ereditati da Uber, ha consolidato vecchie amicizie nate in carcere, si è affermato come punto di riferimento dei numerosi gruppi di nomadi della zona. Non c’è solo il campo di Berra, degli slavi. Ce n’è un altro ad Argenta, vicino all’ex zuccherificio e al boschetto, e un altro paio a ridosso della zona rossa.
L’influenza maggiore il serbo Norbert la esercita sugli slavi, ma nel tempo si è accreditato anche coi Sinti. «È una specie di Mr. Wolf», hanno compreso solo oggi gli investigatori. Risolveva problemi, piccoli o grandi. Si occupava di tutto: da minutaglie come rimediare i soldi per un pieno di benzina, a questioni più complesse come risolvere i conflitti fra etnie. O sistemare qualche ricettatore che non mantiene i patti.
«Il personaggio è di basso profilo criminale, ma la sua rete di relazioni era solidissima», dice una fonte qualificata vicina alle indagini. Non lo hanno scaricato, neanche quando si sono ritrovati lo Stato sul pianerottolo di casa. «Per loro era un asset importante».
Igor appare e scompare. Sempre quando cala la sera. Il 25 aprile un pakistano in bicicletta, a Ospital Monacale dalle parti di Consandolo, lo incontra alle sette. Ha una sbarra di ferro in mano, i capelli sporchi, le occhiaie, la barba lunga. Vuole rubargli la bici, ma non ci riesce. Le bici sono un obiettivo prezioso per Igor, nei giorni che seguono ne prende almeno tre, le usa per spostarsi, poi le abbandona. Vittime sempre i pakistani: a Portomaggiore c’è una comunità piuttosto nutrita di famiglie di operai, negli anni ci sono state frizioni con gli abitanti della zona e nessuno di loro ama avere troppi rapporti con la polizia. Igor lo sa e per questo sceglie sempre loro come vittime.
Le proporzioni dell’“equivoco Igor” appaiono chiare ai carabinieri quando contano venti covi dentro alla zona rossa. Tutti costruiti vicino a corsi d’acqua (l’acqua è l’ideale per confondere l’olfatto dei cani), le frasche tagliate a mo’ di tetto, con teli di plastica per proteggersi dall’umidità della bassa ferrarese, i rifiuti sistemati sempre nello stesso modo e un angolo riservato alle provviste: merendine, scatolette di tonno, sigarette Winston. Non è tutto.
Scoprono che in uno di questi ha costruito un piccolo rudimentale impianto di videosorveglianza, mimetizzando una webcam su un ramo e collegandola a uno dei due pc portatili da cui non si è mai separato. L’indagine ha preso una piega imprevista, quella informatica: Igor comunicava solo attraverso whatsapp e Facebook, collegandosi a servizi gratuiti di wifi, aveva più di due schede sim, consumava un grande mole di traffico dati. 
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Le segnalazioni attendibili che lo individuano da quelle parti durano fino a giugno, poi, d’improvviso, nella zona rossa scende il silenzio. La domanda, adesso, non è più come ha fatto a sfuggire, ma chi lo ha aiutato.
Dalla sua cella, Uber il croato un’idea se l’è fatta.
«Sicuramente i Bejzaku avrebbero potuto essergli d’aiuto, se avessero voluto. Ma non credo siano stati loro. Afrim è uno slavo, non ha problemi a fare furti o a ricettare: era lui il mandante della prima rapina in villa, nell’estate di due anni fa. Ma gli slavi difficilmente si fanno coinvolgere in reati gravi, non vogliono attirare l’attenzione. Diverso il discorso per i sinti, più vicini a lui per indole e spregiudicatezza. A Igor ne ho presentati molti, lo avranno messo in contatto con altri sinti. I due mondi, sinti e slavo, non sono a compartimenti stagni, ma si intrecciano. Se i carabinieri mi avessero fatto parlare da solo con Bejzaku quand’era il momento, sono certo che gli sarei stato utile.
Tornare dove è nato non sarebbe una mossa, lui è troppo intelligente. So che ha molte amicizie in Ungheria. E faccio due nomi: Lazlo e Zoltan Kocsis. Se è davvero in Ungheria, è da loro».
Possono sembrare le parole di un criminale arrabbiato rivolte all’ex complice. Può essere. Ma è un fatto che Afrim Bejzaku, 36 anni, condannato per furto di rame perché andava a Codigoro a rubare grondaie, è un personaggio chiave. Non foss’altro perché Igor ha stretto un rapporto solido con lui e con la sua famiglia.
Gli uomini del Nucleo investigativo di Bologna lo sanno. Un carabiniere è riuscito ad agganciare Afrim e a convincerlo a passargli qualche informazione utile. Per collaborare alla cattura, Bejzaku chiede duemila euro e la garanzia che nessuno toccherà il campo di Berra. La trattativa va in porto. Sembra promettente. Peccato che tutto si interrompa quando dal Comando provinciale parte l’ordine di perquisire proprio Berra. L’abitazione di Afrim viene rivoltata da cima a fondo, di notte. Alle 4 del mattino, Afrim fa due telefonate. La prima, al suo avvocato. La seconda, al carabiniere. «Scordatevi di me». Ancora un problema di comunicazione tra reparti investigativi.
È estate. E anche l’ultimo filo che porta a Igor si è spezzato.
EPILOGO
Ora che si è conclusa la grande caccia all’uomo nel Ferrarese, ora che lo Stato si è ritirato nel silenzio e senza niente in mano, lo prenderanno. Nello stesso modo in cui l’avevano già catturato per tre volte negli ultimi dodici anni: con indagini normali. Intercettazioni, testimonianze, pedinamenti. E soprattutto pazienza, la pazienza dei detective che aspettano l’errore della preda.
E di errori, a quanto pare Igor e i suoi amici ne hanno già commesso qualcuno. Luigi Scrima, ad esempio. Dopo aver ceduto al richiamo delle telecamere ed essersi concesso per interviste in qualità di “ex compagno di cella” ( «Igor guardava solo cartoni animati», «faceva migliaia di addominali al giorno»), Scrima ha sentito il rumore della macchina investigativa avvicinarsi pericolosamente. Ed è scomparso nel nulla.
In tutti questi anni i due sono stati in contatto. Hanno interessi in comune, e amicizie e relazioni. Sono due strade che prima o poi si incroceranno di nuovo, scommettono gli investigatori. Così come la strada di Igor si incrocerà ancora con quelle degli altri personaggi che lo hanno aiutato a nascondersi prima, e a fuggire all’estero dopo. Almeno in cinque sono indagati a Bologna per favoreggiamento. E saranno proprio loro a portare i carabinieri dal loro amico. È questione di settimane, pare.
Che nei giorni più caldi di aprile ci sia stato un problema di comunicazioni tra autorità, è assodato. Ne è prova l’ultimo comunicato stampa del Comando di Ferrara, diffuso il 2 novembre scorso. Nelle intenzioni doveva essere la risposta ad alcuni articoli di Repubblica che davano conto del tacito scontro tra Polizia e Carabinieri. Invece si è rivelato una goffa bugia. «Nessun dato investigativo, fino ad allora, faceva presagire la responsabilità penale ( di Igor, ndr) per gli episodi delittuosi del 30 marzo e del 1° aprile, né la sua presenza nella zona». Centinaia di atti d’indagine, firmati dagli stessi carabinieri, smentiscono questa dichiarazione. Igor è stato individuato fin da subito. Lo ritenevano un «povero mentecatto» e se lo sono venduti alla stampa come un Rambo.
La verità stava nel mezzo, ma ci hanno messo troppo a trovarla.