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 2017  novembre 23 Giovedì calendario

Dai tagli alle dismissioni. Luci e ombre della riforma Gelmini

La Riforma Gelmini doveva provvedere a razionalizzare e rendere più efficiente il sistema universitario. Ma se ciò (in parte) è avvenuto, è stato soprattutto per i tagli dei finanziamenti, più che per una reale riorganizzazione.
È quanto sostiene il rapporto della Corte dei Conti, dal titolo «Referto sul sistema universitario», che a sette anni dalla contestata legge 240 tira un bilancio con luci e ombre. La legge ha reso più precaria la vita dei professori, la sua attuazione è incompleta e in ritardo, «e ha messo in evidenza distorsioni sia sotto il profilo finanziario che in quello del reclutamento del personale docente e ricercatore», si legge nel rapporto. Non è una bocciatura, non era questo l’obiettivo, «ma verificare l’attuazione della riforma da due punti di vista, il nuovo sistema di governance degli atenei e il sistema di rilevazione contabile che permette di vedere in tempo reale i risultati economici», dice Angelo Buscema, presidente delle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei Conti.
Ed ecco che, ad esempio, il rapporto mette in luce anche conseguenze decisamente positive, come gli sforzi delle università di razionalizzare le partecipazioni in perdita, con le dismissioni; nel corso del 2015 gli atenei hanno raggiunto «una soddisfacente solidità economica». Non solo: la riforma ha anche messo un po’ di ordine nel proliferare di sedi e corsi non sempre giustificati: «I Comuni che avevano sedi decentrate dei corsi si sono ridotti a 110, erano 162 nove anni fa». Tutti gli atenei «hanno introdotto il bilancio unico, non sempre accompagnato da una modifica del modello organizzativo diretto a garantire una più efficiente prestazione dei servizi». La riforma voleva incentivare il ricircolo delle menti e l’apertura all’esterno degli atenei «ma tante sono ancora le chiamate relative al personale in servizio nella stessa università che bandisce il posto». Migliora, di poco, l’internazionalizzazione dei corsi.
Una nota decisamente dolente è quella che riguarda le assunzioni. La Corte dice che la riforma «ha complicato il percorso di carriera, allungando il periodo di servizio non di ruolo, contribuendo ad alzare l’età media di accesso al ruolo dei professori». E permangono abusi come quello dei docenti esterni a contratto. In teoria professionisti esterni assunti saltuariamente per portate un contributo alle lezioni: «Dovrebbero essere un’eccezione, ma rappresentano uno strumento spesso necessario per coprire l’intera offerta formativa». La principale pecca, secondo la Corte, «è quella di non aver affrontato direttamente il problema del finanziamento», che cambia di anno in anno, e tendenzialmente al ribasso. Gli effetti si vedono. Borse di dottorato ridotte fino al 40 per cento; e poi la mancata attuazione del diritto allo studio, che era uno dei punti principali della riforma: «Le domande di borse di studio non soddisfatte sono ancora tante». E il merito? La riforma lo ha veramente incentivato come prometteva? Uno dei problemi è che i criteri premiali «usano una pluralità di indicatori modificati di anno in anno e misurati su performance del passato»: così è quasi impossibile per un ateneo programmare politiche efficaci per migliorare il proprio posizionamento.
«La riforma va ancora incoraggiata e attuata, ma facendo delle correzioni – spiega Buscema – e bisogna pensare a misure differenziate perché non tutti gli atenei sono uguali e bisogna valorizzare la loro autonomia. Ad esempio, a seconda del territorio in cui sono, avranno più o meno difficoltà a trovare dal sistema produttivo fondi con cui compensare i bilanci».