La Stampa, 23 novembre 2017
Il leader sunnita Moustafa Allouche: «L’unica via d’uscita alla crisi in Libano è disarmare le milizie di Hezbollah»
Saad Hariri è tornato in una Beirut tutta azzurra per le bandiere del suo partito, Future. Ha pregato sulla tomba del padre. Ha assistito, dal palco d’onore, alla parata per la festa dell’Indipendenza, seduto accanto al presidente Michel Aoun. Poi dal palazzo presidenziale di Baabda, il premier libanese ha annunciato che «sospendeva» le sue dimissioni, annunciate in tv da Riad 18 giorni fa, e spiegato che il suo gesto serviva a rilanciare un «dialogo responsabile» per migliorare le relazioni con i «fratelli arabi» e tenere fuori il Libano dai «conflitti regionali». Ma è sembrato un altro Hariri rispetto a quello «prigioniero» nella capitale saudita, teso e che prometteva di «tagliare le mani all’Iran». Ieri ha stretto quelle dell’ambasciatore iraniano. Segni di distensione. Hassan Nasrallah, leader del partito sciita Hezbollah ha dato qualche segnale di disponibilità, e annunciato il ritiro dei suoi miliziani dall’Iraq. Ancora non basta, la speranza è ora che si vada verso la soluzione di una crisi che stava per trascinare il Libano in un’altra guerra civile. Moustafa Allouche, uno dei principali leader di Future e consiglieri di Hariri, resta però prudente e non risparmia critiche neanche al grande alleato, l’Arabia Saudita: «Contento? C’è poco da gioire: la crisi è appena cominciata e l’aspetto libanese è una piccola onda in un tempesta che scuote l’intero Medio Oriente».
Cominciamo dalla crisi libanese.
«Ci sono soluzioni belle, ma impossibili. E ci sono soluzioni mediocri. La vera via di uscita da questa situazione è il disarmo di Hezbollah. Sono 17 anni che se ne parla, da quando è finita l’occupazione israeliana nel Sud. Non si è fatto un solo passo in avanti. Il presidente Aoun deve molto a Hezbollah, difficilmente farà grosse concessioni su questo punto».
Se Hariri non ce la fa, è pronto un sostituto nel campo sunnita?
«Il movimento Future ha preparato dirigenti di alto livello in questi anni. I nomi non li faccio, tanto circolano già (fra gli altri il suo, quello del generale Ashraf Rifi, e il fratello di Hariri Bahaa, ndr). Detto questo, Hariri resta uno dei rari leader davvero liberali in Medio Oriente. C’è un bisogno disperato di una visione di questo tipo, laica, democratica. Il Libano resta forse l’unica democrazia regionale, anche se azzoppata dal settarismo. Ma ora è stritolata da forze molto più grandi».
Cioè?
«La prima forza, che da trent’anni continua ad aumentare la sua influenza, è quella della rivoluzione iraniana. È l’ideologia khomeinista del velayat e faqih, il governo dei religiosi, che ha riacceso questa attesa messianica, del ritorno del Madhi, nelle comunità sciite dall’Iraq al Libano. Questo movimento è un avversario di tutte le forze liberali e ha creato delle potenti forze armate, milizie, a sostegno del suo progetto. Una minaccia evidente».
Anche nel campo sunnita, però, l’estremismo è dilagato. Come giudica il ruolo dell’Arabia Saudita?
«Il Regno saudita è stato costruito settant’anni fa su due pilastri: il feudalesimo e il settarismo. Sono due pilastri molto negativi che influenzano tutto il Medio Oriente. Prendiamo l’economia: perché un giovane deve trovare un buon posto di lavoro solo attraverso i legami famigliari, di clan, feudali, o attraverso l’appartenenza settaria? E non perché è il più qualificato? Un forte cambiamento in questo senso è la rivoluzione che ci serve».
Ora però, in Arabia Saudita, i tentativi di riforma di Mohammed bin Salman suscitano molte speranze.
«Sono molto prudente. La struttura di quello Stato, così come è stata concepita, è molto difficile da riformare. La gestione delle dimissioni di Hariri è stata un errore madornale da parte dell’Arabia Saudita, che ha alimentato il sospetto che fosse tenuto in ostaggio. In realtà è questa la nostra condizione di libanesi, oggi. Tutti i due campi sono affetti dalla sindrome di Stoccolma, amano i loro sequestratori».