la Repubblica, 22 novembre 2017
Abdul-Jabbar: «Noi atleti neri simbolo della lotta per i diritti nell’America divisa»
C’è stata vita, eccome, dopo il “gancio cielo” i record e i successi di uno dei più grandi giocatori di basket di sempre. Se i tifosi lo inchiodano a quel passato glorioso perché il mito cresceva nella loro giovinezza sempre rimpianta, Kareem Abdul-Jabbar, 70 anni, è andato molto oltre. Scrittore, giornalista, musicista, attivista politico. Una produzione poliedrica e feconda. In Italia è da poco uscito il suo Coach Wooden and me (Add), a fine 2018 lo stesso editore pubblicherà Sulle spalle dei giganti. La mia Harlem: basket, jazz, letteratura. In questa intervista ragiona dell’America di oggi e di ieri, di Donald Trump, dei diritti dei neri. Con un lucido pessimismo sul presente, ma col cuore che non perde la speranza in un futuro migliore.
Partiamo dal libro. Lei ha scritto del rapporto profondo col suo allenatore prima dell’avvento di Trump. Però, letto ora, sembra indicare la strada dell’incontro possibile tra un “white american” tradizionalista, però con principi morali ben saldi, e sicuramente non razzista (John Wooden appunto, morto nel 2010), e un nero attratto dal vento della contestazione in quei complicati Anni 60 (lei).
«Wooden era un uomo straordinario, manca a tutti coloro che l’hanno conosciuto. Era profondo, difendeva le sue convinzioni in modo silenzioso ma efficace. Ma in America ci sono molti esempi di persone di tutte le razze, etnie, religioni e identità di genere che vanno d’accordo e si sostengono a vicenda. Tuttavia l’attuale clima politico sotto l’amministrazione razzista, misogina, antisemita e anti-musulmana del presidente Trump ha reso l’America molto più divisa. Il fatto che Trump abbia il più basso sostegno popolare degli ultimi 70 anni ci dice che le sue idee non sono condivise dalla stragrande maggioranza».
Wooden lavorò per l’integrazione, discretamente, senza fare molta propaganda. È anche oggi il metodo più efficace o bisogna alzare la voce?
«Qualunque cosa le persone vogliano fare è utile. Ognuno deve decidere da solo cosa è giusto per sé. L’importante è andare tutti nella stessa direzione. Ma è vero che in tempi di crisi è anche importante rischiare, uscire dalla comfort zone, dalla propria area di sicurezza».
C’è la percezione che, nonostante le molte battaglie per l’emancipazione, la situazione non sia granché migliorata. Soprattutto per i neri, negli Stati Uniti.
«Non sono d’accordo. C’è stato un enorme miglioramento in ogni aspetto della vita. Ma abbiamo sicuramente una lunga strada da percorrere perché non abbiamo eliminato il pensiero irrazionale che è il fertilizzante per i pregiudizi. I maschi afroamericani hanno più probabilità di essere colpiti dalle forze dell’ordine, più probabilità di marcire in prigione per reati minori. Abbiamo molta strada da percorrere per raggiungere la parità economica. Certo il razzismo dilaga in alcune aree del Paese ed è presente in modo sottile in altre.
Non siamo ancora uguali. Per dire dei vantaggi dei bianchi, c’è una barzelletta che ha per paragone il baseball e vuole che i bianchi siano nati già in terza base e si diano una pacca sulla schiena quando realizzano un fuoricampo. È una barzelletta solo in parte. Quando la povertà si aggiunge a un sistema scolastico scadente e alla disoccupazione, non si livella il campo di gioco».
C’è ancora qualcuno che la chiama “nigger” per strada come succedeva prima che lei diventasse una star?
«La “strada” americana ora include anche i social media. Sì, c’è ancora qualcuno che mi definisce con termini spregevoli, specialmente dopo la pubblicazione di miei articoli sulle ingiustizie sociali. Ogni volta che qualcuno sottolinea un difetto nel tessuto sociale le persone si scagliano contro chi denuncia. È come se l’ispettore degli immobili venisse a casa tua e ti dicesse che le termiti stanno indebolendo le fondamenta e tu ti arrabbi con lui perché ti costerà un sacco di soldi la riparazione».
Molti giocatori neri si inginocchiano durante l’inno nazionale per protesta contro il presidente Trump. Quanto sono importanti gli atleti nella lotta per i diritti?
«Gli studi dimostrano che, dopo i genitori, gli atleti sono le figure più ammirate dai bambini. Ciò significa che siamo responsabili e dobbiamo avere un comportamento etico. Chi vuole arrivare alla parità razziale, deve aggiungere la propria voce alla lotta. Lo sport è sempre stato in prima linea nel reclamare l’uguaglianza. Negli Anni 20-30 c’era una squadra di basket tutta composta di neri a cui non era permesso competere con i bianchi.
Quando ha potuto farlo, ha vinto un campionato. Altri campioni, da Joe Louis a Jesse Owens, da Jackie Robinson a Muhammad Ali, hanno mostrato all’America, bianca e nera, quello che gli afroamericani potevano fare».
Come giudica il primo anno di presidenza Trump?
«Un disastro. Trump chiaramente non ha le capacità intellettuali e il temperamento da leader. È l’incarnazione di tutto ciò che è sbagliato nel Paese, mostra tutti i peggiori tratti di faziosità, misoginia, xenofobia e sfruttamento dei poveri».
Perché dopo Obama, il primo presidente nero, gli Stati Uniti hanno scelto Trump?
«Anzitutto Trump ha avuto 3,5 milioni di voti popolari meno di Hillary Clinton, quindi la maggior parte degli americani non lo voleva. Ha vinto perché il Congresso controllato dai repubblicani ha tentato di bloccare tutte le leggi progressiste di Obama per indebolire il Partito democratico.
Questo ha frustrato molti elettori, i quali hanno creduto che uno che si è autoproclamato estraneo alla politica di Washington potesse smuovere le cose. Un pensiero ingenuo che ha solo peggiorato la situazione».
C’è chi pensa che Trump sia la risposta al timore dell’uomo bianco di perdere i propri privilegi.
«Sono d’accordo».
Fa paura il riemergere di organizzazioni bianche suprematiste?
«Francamente non sono molto preoccupato. La politica è un pendolo. Oscilla ma in qualche modo poi riesce a pareggiare.
L’amministrazione Trump ha incoraggiato i suprematisti a venire alla luce, ma quando Trump non sarà più alla Casa Bianca, probabilmente torneranno a nascondersi. Sono molto più preoccupato del razzismo strisciante che punta a mantenere lo status quo».
Insomma l’America è migliore o peggiore di prima?
«Siamo meglio rispetto agli Anni 60 e peggio dopo l’elezione di Trump.
Il presidente ha messo persone tremende in alcuni posti chiave che fanno cose cattive per l’energia, l’ambiente, la salute, l’istruzione.
Ma lui non sarà lì per sempre… e nemmeno loro».
Ci sarà un altro presidente nero? O un ispanico? O sarà la volta di una donna?
«Tutto ciò avverrà, probabilmente prima che dopo. Ciò di cui abbiamo bisogno è di una persona competente. E che non commetta l’errore di una guerra nucleare».
L’America è ancora la superpotenza mondiale o Trump ha distrutto la credibilità del Paese?
«Siamo tra le superpotenze. Non mi interessa se la numero uno o la numero dieci. Conta di più il modo in cui usiamo il potere che abbiamo per portare prosperità economica e giustizia sociale per noi e per il resto del mondo. Trump è un errore temporaneo, sarà presto il passato.
E potremo riprendere la nostra missione».
Ci sono oggi eredi di Malcom X, Martin Luther King. Se sì, chi sono?
«Ta-Nehisi Coates è uno scrittore geniale che affronta molte questioni cruciali per i neri d’America. Il gruppo Black Lives Matter è una luce per molti. Ma in generale il movimento è meno articolato su personalità che guidano le folle e punta più sulle molte persone anonime che lo tengono vivo».
Dopo i numerosi casi di giovani uccisi dalla polizia, nei ghetti può scoppiare una ribellione?
«Dalla guerra civile in poi, c’è sempre stata ribellione. Oggi si tratta di tenere sotto pressione gli organi legislativi perché promuovano leggi che favoriscano le opportunità e abroghino quelle che limitano le scelte delle persone.
Dobbiamo anche unirci ad altri gruppi (donne, comunità LGBT, gruppi religiosi) per combattere tutti insieme le ingiustizie».
Per chiudere, cosa avrebbe detto coach Wooden di Trump?
«Avrebbe scosso la testa e si sarebbe chiesto come è stato possibile».