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 2017  novembre 22 Mercoledì calendario

Jonathan Franzen: «Confesso che ho copiato. E DeLillo lo sa»

NEW YORK Sono ormai molti anni che Jonathan Franzen ha spostato la sua residenza a Santa Cruz, cittadina nel centro della California non lontana da Monterrey, lo stesso luogo in cui John Steinbeck ambientò Pian della Tortilla. Lo scrittore ha abbandonato quasi del tutto l’appartamento dell’Upper East Side di New York: troppe distrazioni, troppo rumore, troppa vita. Nella casa di Santa Cruz, che divide con la compagna Kathy, riesce invece a concentrarsi sulla scrittura, dedicando buona parte del tempo libero al birdwatching. La sua giornata è scandita da un rituale certosino: sveglia alle sette, prima colazione e spostamento nel suo ufficio dell’Ucla/Santa Cruz, dove scrive, senza interruzioni, fino all’una e mezzo. «È un luogo tranquillo, vuoto e soprattutto freddo. Mi serve per tenermi concentrato, ma allo stesso tempo non troppo sveglio: inizierebbero le distrazioni. Scollego Internet e non prendo telefonate. Solo dopo pranzo mi dedico ad altro: vado in palestra con un trainer che mi brutalizza, gioco a tennis e poi rispondo alle email».
Lei è stato sin da subito molto critico nei confronti dei social network. Crede che stiano influenzando negativamente la letteratura?
«Ho notato un cambiamento di atteggiamento e un’enorme perdita di tempo che caratterizza gli scrittori che si sentono obbligati a essere presenti sui social. Guardo con allarme al crollo delle vendite dei libri: si dedica troppo tempo a twittare e si mette in secondo piano il rapporto con la lettura. Ma sono felice di constatare che la qualità letteraria rimane alta, anche tra i giovanissimi: leggo costantemente del materiale eccellente».
C’è un nome che l’ha colpita più degli atri?
«Tony Tulathimutte (autore di Private Citizens, definito dal New York Magazine, il primo grande romanzo dei Millennial, ndr): non so nulla di lui. Ma quello che scrive è notevole».
Ci sono altri campi che oggi incidono sulla letteratura?
«Faccio un esempio personale: quando ho lavorato con il regista Todd Field e con Daniel Craig all’adattamento del mio romanzo Purity, che diventerà una serie tv, mi sono reso conto di alcuni problemi nella costruzione narrativa del romanzo. Dettagli che sono venuti fuori di fronte all’esigenza di strutturare la sceneggiatura: per me è stato un grande bagno di umiltà».
Si può parlare ancora del grande romanzo americano?Qual è stato l’ultimo per lei?
«È un discorso che non mi ha mai appassionato molto. Perché penso ai grandi romanzi senza curarmi se siano americani oppure no.
Recentemente ho letto splendidi libri: il nuovo romanzo dell’americana Rachel Kushner, ancora inedito, Swing Time di Zadie Smith, che, come si sa, è anglo-giamaicana, e la saga dell’italiana Elena Ferrante».
Qual è lo scrittore contemporaneo dal quale può dire di avere imparato di più?
«Denis Johnson, ma non so se ho imparato da lui: è stato un grande, per alcuni versi inimitabile. Ma imparo di più da chi non mi piace.
Mi spazientisce – per usare un eufemismo – la letteratura postmoderna. Ma con una sola eccezione: Don DeLillo, da cui ho persino copiato. È un mio modello, non solo per la scrittura, ma anche per il modo rigoroso e generoso con cui si gestisce in pubblico».
La morte di Charles Manson ha riportato l’attenzione sulla fascinazione tutta americana per il male che alimenta anche tanta cultura pop.
«Il mondo è pieno di gente folle, disturbata e disperata, ma si tratta solo dell’America. La gente che osanna i serial killer può trovarsi ovunque. Semmai l’elemento americano è tutto nella spettacolarizzazione del male: mi vengono in mente Bonnie e Clyde o Jesse James, anche se in quel caso c’è da fare una riflessione sull’epica fondante di questo Paese, che è spesso violenta».
Nell’ultimo romanzo, Purity, lei descrive la femminilità di oggi: che cosa pensa del movimento partito dal caso Weinstein?
«Arrivato a cinquantotto anni, riesco ancora a stupirmi di quante persone squallide esistano, che utilizzano il potere in cambio di favori sessuali. Gli scandali hanno investito persone di ogni colore politico, ma credo che non sarebbero venuti fuori con la stessa rabbia, se alla Casa Bianca avessimo avuto un’amministrazione diversa. È come se con Trump si fosse scatenata una voglia irrefrenabile di parlare, di sfogarsi. L’hashtag #metoo delle donne si alimenta di questa onda».
La rivista Paris Review si è interrogata sull’atteggiamento da tenere nei confronti di opere d’arte realizzate da persone che si macchiano di crimini orribili.
«Riconosco di avere dei problemi di fronte alle opere realizzate da persone responsabili di atti immorali. Non so se si tratta di una questione di età, ma mi interessa sempre meno la qualità artistica separata dall’etica. Credo che il buio dell’anima di un artista prima o poi emerga anche nella sua opera».
Come si pone per esempio di fronte a Céline e a quello che ha scritto sugli ebrei?
«Céline era un grande scrittore, sarei un pazzo a negarlo. Ma entro in crisi, come con l’imperialismo di Conrad, che pure era un uomo generoso. O con Caravaggio, che ha ucciso un uomo: è il motivo per cui cerco di leggere poche biografie di artisti».
Alcuni anni fa l’Accademia del Nobel accusò la letteratura americana di insularismo: lei che cosa ne pensa?
«Lo disse soltanto un membro dell’Accademia di Svezia. Rispondo che si tratta di un’isola, ma è estremamente grande».
In Purity ha descritto il sesso in modo molto diretto. Lo si può ancora raccontare nell’era voyeuristica di Internet?
«È più rischioso, ma è ancora più interessante per un romanziere, che ha il dovere di cogliere tutte le sfumature, di capire il cuore di ogni atto e restituire al lettore la complessità morale».