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 2017  novembre 21 Martedì calendario

La fine in carcere di Charles Manson, il killer che sognava l’Apocalisse

Due notti d’agosto. L’estate senza fine di Los Angeles trasformata nell’Apocalisse americana, la fine del sogno dei Figli dei Fiori e della generazione degli Anni 60: Pace e Amore che diventano un’orgia di violenza selvaggia. Sette persone – e un bambino strappato dal grembo della madre a due settimane dal parto – massacrati con coltellacci e pistole, le scritte con il sangue – «Pigs», «porci», e «Helter Skelter» come la canzone dei Beatles, «precipitevolissimevolmente». Il capolavoro della vita violenta di Charles Manson, musicista fallito e serial killer più famoso del mondo morto l’altra notte a 83 anni in un ospedale per carcerati dello Stato della California: non una canzone – ne scrisse tante, tutte mediocri – ma la trasformazione del bambino figlio d’una prostituta senza fissa dimora. Nato senza nome, «No Name», in un ospedale per poveri e diventato un mostro, un demonio, il diavolo in persona. 
Cresciuto prima nei riformatori – a dodici anni il primo crimine, lo stupro di un compagno di reclusione sotto minaccia d’un rasoio – e poi in carcere. Liberato trentenne giusto in tempo per andare a San Francisco nell’«estate dell’amore» a fondare un sinistro culto della sua personalità. Una banda, la «Manson Family», che nel suo delirio avrebbe aspettato l’Apocalisse – l’«Helter Skelter» – cioè la guerra dei neri contro i bianchi, la vittoria dei neri e infine il golpe di Manson per diventare padrone dell’America: il suo modello, Adolf Hitler. 
La «Family» viveva dove capitava: set cinematografici di film western abbandonati, ranch fatiscenti, ma in quegli anni di assoluta libertà tante case erano aperte. Manson diventa amico (e ospite) di produttori discografici e di Dennis Wilson, uno dei Beach Boys. Decide di dare una mano all’Apocalisse, accelerarne l’arrivo: il 9 agosto 1969 manda i suoi seguaci a 10050 Cielo Drive, Beverly Hills, la casa di Roman Polanski (a Londra per lavoro) e Sharon Tate, la bellissima attrice che sta per dare alla luce il loro bambino. 
Tate accoltellata sedici volte e garrotata, il bimbo estratto dal suo ventre, gli amici massacrati. Un’altra strage, la notte successiva: Manson questa volta va personalmente perché è scontento della sera prima: tocca all’imprenditore Leno Labianca e alla moglie Rosemary al 3301 di Waverly Drive a Los Feliz. L’avrebbero anche fatta franca se una delle assassine sue complici, in cella, qualche mese dopo, accusata di un altro crimine, non si fosse vantata con qualcuno. 
Il processo come un film: Manson che tiene concioni, che cerca di accoltellare il giudice con una matita, che stende il suo avvocato con un pugno. Verdetto inevitabile, tutti condannati a morte nel 1971 finché l’anno dopo la California sospende le esecuzioni. Manson passa decenni in gabbia sghignazzando al pensiero della sua celebrità, finalmente. Guns N’ Roses e Marilyn Manson registrano cover delle sue canzonette, la t-shirt col suo volto diventa un successo commerciale. Manson che rimbalza alle inutili udienze nelle quali, svastica in fronte, cerca di convincere i giudici a scarcerarlo per buona condotta. Manson in una cella per 47 anni a scuotere i lunghi capelli prima neri poi bianchi, a strimpellare la chitarra e a staccare fili dalle calze fornite dal carcere per farne piccoli ragni, piccoli scorpioni. 
Uno dei più bravi intervistatori d’America, Charlie Rose, nel 1986 gli fa dire l’unica cosa che ci interessava davvero sapere da lui: «Ma non le importa niente, ripensando a quel che ha fatto?». «Importare? Che cosa significa?».