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 2017  novembre 20 Lunedì calendario

«Volevo curare gratis i politici matti. Hanno detto no». Intervista a Vittorino Andreoli

 «Per “curarli” sarei andato gratuitamente a Palazzo Chigi per due settimane. Ma non mi hanno voluto». 
Vittorino Andreoli, lo psichiatra più famoso d’Italia, di folli se ne intende. E, giura, in giro ce ne sono tanti. «Abbiamo persone che si sono comportate da matti tremendi e che ora ritornano normali senza passare per la psichiatria. Semmai per la chirurgia estetica». Di nomi, Andreoli, non ne fa. Ma il messaggio è chiaro: «Cambiano i governi, i politici litigano, fanno finta di voler cambiare tutto, ma in realtà lavorano per non cambiare nulla. La stabilità è data dalla nullità della politica. Cosa succederà in Sicilia dopo le elezioni? Niente. Cosa succederà in Italia alle prossime elezioni? Niente. Fatta la legge elettorale sappiamo già come andrà a finire. Il cittadino non conta nulla. Perché uno deve andare a votare se tutto è già stabilito? È caduto il principio della democrazia, che però difendiamo». 
Pure la psichiatria era democratica una volta... 
«Ora non più, per fortuna». 
E com’è? 
«Scientifica». 
Ovvero? 
«Significa che esiste una circolarità tra corpo (biologia), mente (psiche e personalità, quest’ultima in continua evoluzione) e relazioni sociali (ambiente)». 
In che modo questi tre fattori interagiscono? 
«Se si interviene sul cervello, l’azione ricade sulla mente e dalla mente ricade circolarmente sulla nostra disposizione alle relazioni sociali. Se io agisco sulla psiche, contemporaneamente ho riflessi sul cervello e sulla mia socialità. Quindi, si influenzano circolarmente. Non si può seguire uno senza l’altro. Si pensi ai rapporti di lavoro. Un capo maleducato di certo influenza l’umore di un impiegato anche solo non salutando. Se diventasse più umano, il rapporto col dipendente potrebbe migliorare». 
Cesare Lombroso diceva che criminali, pazzi, si nasce. Franco Basaglia diceva che è la società ad essere malata e che non esiste la malattia del singolo. La psichiatria ha fatto un passo avanti? 
«Oggi si possono ottenere risultati usando una molecola (psicofarmaci) o usando la parola, ma anche modificando le condizioni ambientali». 
Il suo ultimo libro,“I principi della nuova psichiatria” (Rizzoli, pp 184, euro 18), ha come sottotitolo “Oggi è possibile curare la mente”. Prima non lo era? 
«Fino ad oggi abbiamo curato i malati di mente? La risposta è no per una parte, sì per un’altra parte, ma malissimo». 
I manicomi non erano luoghi di cura? 
«Erano luoghi di contenzione. Le persone erano governate con una legge del 1904. Diceva che matto è “colui che è pericoloso a sé e/o agli altri oppure è di pubblico scandalo”. Sulla base di ciò sono nati i manicomi, luoghi per contenere la pericolosità. La prova è che gli ospedali psichiatrici non dipendevano dal ministero della Sanità ma dall’Interno. Ecco perché quando le persone “normali” sono andate lì dentro, questi luoghi sono apparsi disastrosi. Nel ’38 ci fu il primo caso di uno schizofrenico curato con l’elettroshock. Dopo sei scosse era diventato calmo. Poi, con la scoperta di nuove molecole (gli psicofarmaci: nel 1953 il sedativo, nel ’57 l’antidepressivo, nel ’61 le benzodianzepine), sono stati trattati. Infine viene fuori la psichiatria democratica: dice non ci sono malati, ma è malata la società». 
Quindi..
«Prima li abbiamo contenuti nei manicomi. Poi c’è stata la fase dei trattamenti con i farmaci, ma con cure grossolane e casuali. Infine, con la legge Basaglia, scompare la definizione di malato pericoloso perché lo è la società. Un errore perché si guardava soltanto all’aspetto sociale». 
Oggi, invece, quali sono i principi della psichiatria? 
«Siamo finalmente arrivati a definirla una disciplina scientifica. Oggi la neuroscienza permette di vedere come è fatto il cervello. Si può fotografare mentre si ascolta la musica, grazie a Pec e Risonanze magnetiche nucleari». 
Si entra nel cervello? 
«Praticamente sì. Ma c’è un’altra grande scoperta». 
Quale? 
«Che il cervello è formato da due parti: una determinata che si forma poco dopo la nascita; una non determinata che è il cervello plastico. Significa che il nostro cervello si modifica, si creano strutture cerebrali sulla base delle esperienze. Per la psichiatria significa che i disturbi mentali fanno parte tutti del cervello plastico». 
Quindi siamo tutti potenzialmente matti? 
«Se è vero che dipende da tre fattori, può essere che uno in famiglia sia sereno e al lavoro una bestia, o viceversa. Può essere che un giorno sembri il saggio Salomone, un altro un selvaggio. Siccome la normalità o la follia dipendono da questi tre fattori, si capisce che una persona abitualmente normale possa comportarsi in maniera anomala, alterata, e avere tutte le caratteristiche della follia. Non è vero, come diceva Lombroso, che se uno è matto si comporterà sempre da matto e se uno non lo è non si potrà mai comportare da matto. Noi diciamo che chiunque può avere comportamenti normali e in ambiti diversi apparire totalmente folle. Nessuno ha la garanzia di un comportamento normale. Da questo nasce un altro principio, ovvero che tra normalità e follia c’è una continuità». 
Come si misura il confine? 
«Facciamo un esempio: quando una persona chiude il gas e torna a verificare: se lo fa fino a tre volte è normale, se lo fa cinque volte bisognerebbe iniziare a preoccuparsi. È la frequenza del comportamento che distingue l’abitudine dal gesto ossessivo». 
Ma oggi è più facile diventare “pazzi”? 
«Diciamo che il tempo presente favorisce comportamenti anormali, ma non li crea». 
In che senso? 
«Tra favorire e creare c’è differenza. Due persone che vivono nello stesso ambiente folle hanno comunque risposte differenti. Ma va considerato che viviamo in un ambiente falso e se si vive in un ambiente di persone false è più facile non fidarsi. E se non ci si fida si diventa insicuri e si ha paura». 
E qui entra in gioco l’ambiente, il terzo fattore... 
«Conta. Noi tutti siamo frustrati. La frustrazione è un sentimento, un mal di essere che avvertiamo sul lavoro e a contatto con gli altri che deriva da insicurezza e paura. Anche le persone più ricche sono frustrate. Paura e insicurezza vogliano dire anche violenza». 
Cosa ci sta succedendo? 
«La diagnosi è chiara: stiamo regredendo all’uomo pulsionale, all’animalità, al selvaggio. Abbiamo faticato per creare freni inibitori, sostenuti da leggi e punizioni, che ora stanno scomparendo. Voglio una moto, non ce l’ho, la rubo. Voglio quella donna, la seguo, le salto addosso. Si inseguono pulsioni e istinto». 
Perché si è arrivati a questo? 
«Perché sono caduti tutti i princìpi. Oggi, ad esempio, il termine ladro è flessibile, è uno che ha dei bisogni. E se si parla di coerenza le persone ti ridono in faccia». 
C’è qualche speranza? 
«Credo nel cambiamento del singolo. Credo che una persona che vive male, domani possa vivere meglio». 
Anche l’identità è messa a dura prova... 
«C’è quella individuale, quella di genere e quella sociale, ovvero del ruolo. Ma se uno si dice maschio al 100%, c’è sempre qualcuno pronto a dire che in lui c’è un po’ di femminilità. E così per la donna: deve saper dire di no. In un certo senso bisogna adattarsi alla società». 
E poi c’è l’io. Si sente sempre dire “io” “io” “io”... 
«È talmente sviluppato. Altro che “Super io”, qui siamo al delirio dell’io. Non c’è più l’altro, ci sono solo io». 
Però poi vanno dallo psichiatra... 
«Il problema è che vengono per cambiare il corpo, non la mente, che magari è rotta ovunque. Oggi nessuno vuole essere “normale”. Eppure la psichiatria scientifica può aiutare il singolo a vivere meglio». 
È vero che si ha difficoltà ad ammettere di aver problemi di mente? 
«Diciamo che a molti piace anche dire “ho il mio psichiatra”. Ma, come dicevo, non per curare la mente». 
Ma le persone zeppe di ego non sono anche fragili? 
«Sono deboli. Nel mio libro “L’uomo di vetro” ho parlato della fragilità distinguendola dalla debolezza, che è l’antitesi del potere. La fragilità è legata alla condizione umana, si lega al senso del limite di ciascuno di noi, è una caratteristica umana che ci porta verso l’altro, è dire “io ho bisogno dell’altro”. Non so se ho aiutato i miei matti, ma se l’ho fatto è per la mia fragilità. Non ho avuto crisi depressive, ma so cosa significano tristezza, lutto, dolore e allora la capisco nei miei pazienti a cui voglio molto bene. La follia del singolo è spesso solitudine, abbandono, il dramma è che tu ci sei e nessuno ti vede. Allora la fragilità dovrebbe essere il principio primo da conquistare perché è l’antitesi del potere: faccio perché posso. Del potere, dunque, come verbo non come sostantivo». 
Come sostantivo che vuol dire? 
«Autorità. In politica, per esempio, occupare un posto che non serve agli altri ma che serve a te. Il potere è la più grande malattia sociale che esiste perché non ha limiti. Prima c’era bisogno di muscoli, oggi c’è bisogno del denaro. Bisogna sentirsi al di sopra». 
In che senso? 
«Prendiamo l’atto sessuale, che è un gioco erotico. Allora, come è possibile violare una signora tenuta con la forza, che urla per difendersi? Come fa quella persona ad essere in erezione?». 
Già, come fa? 
«Non è l’oggetto della sessualità, ma la violenza della sessualità. L’erezione arriva sapendo che stai facendo una cosa contro la volontà dell’altro». 
Alla Weinstein... 
«Lui era già in erezione quando entravano le attrici, perché lo stimolo è il potere, non le donne in sé. L’erezione deriva non dall’oggetto ma dal fatto che quell’oggetto è pronto ad averlo solo con la violenza. Se la donna dicesse “fai quello che vuoi di me”, l’erezione cesserebbe». 
Le donne stuprate possono “salvarsi”? 
«Bisogna seguirle, è qualcosa che ricorderanno per tutta la vita». 
Le mamme hanno un ruolo? 
«Non c’è nessuno che sia immune dal desiderio di potere. Esse proiettano il proprio potere sui figli, devono fare cose eccezionali. Se lavorano in posta non sono protagonisti» 
È triste... 
«Siamo tutti malati di potere. I politici, i ricchi che sono sempre di meno e sempre più ricchi. Al collo si ha attaccato un prezzo. Perfino la povertà è malata di denaro. E il ricco cosa vuole? Che io ami il denaro e che mi inginocchi di fronte al potere. È la maniera per garantire a quelli che hanno tanto di continuare ad essere visti come potenti».