ItaliaOggi, 21 novembre 2017
L’antimafia si nutre della mafia
Il bombardamento mediatico successivo alla morte di Totò Riina è spropositato rispetto al fatto in sé, che si riduce alla scomparsa di un vecchio e inebetito criminale, già capo mafioso. Come fatto di cronaca, si sarebbe dovuto liquidarlo in un articolo contornato da qualche ricordo storico. Storico, e non di cronaca, visti i decenni trascorsi dai crimini commessi.
Perché, allora, questa ondata di prolungate aperture nei telegiornali, nei radiogiornali, nei quotidiani, nei siti? Perché questo incessante assalto di una non notizia (la morte di un vecchio le cui condizioni di moribondo erano note da settimane) trasformata nella notizia delle notizie? Molto semplice: l’antimafia di professione ha bisogno di contare sull’attualità della mafia per giustificare la propria medesima esistenza. I complottisti, i mafiologi, i retroscenisti, si sono sfogati con una frase a effetto: Riina se n’è andato con i suoi segreti.
Quali segreti? Facili a capirsi: la trattativa Stato-mafia, i rapporti con i politici, le trame oscure con gli immancabili servizi deviati più spezzoni dello Stato e partiti. Roba di un quarto di secolo fa, ma ritenuta ancora ben viva nonostante le disfatte giudiziarie patite da chi ha voluto sostenere tesi prive di riscontri. Anzi: continua a sostenerle, facendo adesso ricorso ai segreti del capomafia morto per dolersi dell’impossibilità di provare colpe e responsabilità. Non è casuale che l’immagine più ricorrente nei servizi televisivi fosse quella di Giulio Andreotti, nonostante l’assoluzione. Collegare il Belzebù democristiano allo scomparso Riina serviva altresì per sollecitare analogie con un Belzebù ancora vivo, e proprio in queste settimane tornato a essere indagato per le sue molto teoriche collusioni mafiose: Silvio Berlusconi.
Il gioco è stato semplice: Riina, coll’imparagonabile peso criminale dei suoi misfatti, ha coperto le collusioni con i politici (ovviamente tutti di centro e di destra) ed è morto senza volerle svelare. Insistere sulle decine di ergastoli cui era stato condannato è servito a indirettamente trasferire sui politici collusi la responsabilità del sangue sparso. Procuratori che hanno fallito i loro tentativi d’invischiare questo e quello (non solo uomini pubblici, ma altresì responsabili della sicurezza) hanno trovato nei supposti silenzi di Riina una giustificazione ai fallimenti delle loro iniziative giudiziarie. Giornalisti che da decenni tentano di collegare le fortune economiche del Cav ai sostegni della mafia si sono doluti per il comportamento ostinato di Riina, ben diverso dalla disponibilità di alcuni pentiti nell’indicare complicità guarda caso coincidenti con le attese e i suggerimenti di inquirenti prevenuti.
L’antimafia si nutre della mafia. Quando non c’è, deve crearsela, arrivando a sputtanare Roma e l’Italia con l’indicazione di «mafia capitale». L’occasione della morte di Riina (che, a giudizio equilibrato e non prevenuto di molti, da anni non comandava nulla e nessuno) ha potuto rinverdire questo mondo giudiziario e mediatico, che deve sempre espandere i confini territoriali e di merito per motivare sé stesso. Non si deve tacere, infine, che l’elevato numero di film, documentari, inchieste, dibattiti, spettacoli, tutti incentrati sulla mafia e divulgati sulle più varie reti televisive, trae succo dal perpetuarsi del mito di una criminalità organizzata invincibile e sempre rinascente.