Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2017
Il monitoraggio di Mef e Funzione pubblica: addio a 1.650 società partecipate
Ministeri, enti pubblici, Regioni ed enti locali hanno messo in programma di abbandonare 1.650 su 4.701 partecipate dirette. Suona così il primo numero ufficiale sui piani di razionalizzazione che le Pa hanno dovuto approvare entro il 30 settembre, e comunicare entro il 10 novembre, alla struttura di controllo creata al ministero dell’Economia. Insieme alla Funzione pubblica, ieri via Venti Settembre ha reso noti i dati che confermano la tendenza a “tagliare” in pratica una partecipata su tre, già emersa fra i capoluoghi nell’inchiesta pubblicata il 1° ottobre sul Sole 24 Ore. Se si estende questa dinamica al complesso delle partecipate, l’addio potrebbe risuonare fino a 2mila volte.
Come sempre quando ci si addentra nelle ramificazioni societarie della Pa, infatti, i numeri hanno bisogno di spiegazioni. Al censimento di Mef e Funzione pubblica hanno risposto 8.771 amministrazioni, cioè l’83% del totale, e la gran parte di chi è rimasto in silenzio è rappresentata da piccoli Comuni. Il quadro, insomma, non è completo ma è ampio, e conta 5.791 società: siccome ogni azienda può avere più soci pubblici, le partecipazioni sono 32.504.
Le prime analisi ministeriali si sono concentrate sulle partecipazioni detenute direttamente dalle Pa, e non da altre società pubbliche. Sono 4.701, nel 55% dei casi a maggioranza pubblica mentre nelle altre gli enti sono in minoranza. Nel primo campo, le Pa hanno dichiarato di voler dismettere 747 aziende, aggiungendo al programma anche 118 procedure di fusione; in 785 casi, poi, hanno dichiarato di voler vendere anche le partecipazioni di minoranza.
Un taglio del 33% resta lontano dallo slogan «da 8mila a mille» che ha accompagnato la nascita della riforma, ma rappresenterebbe una potatura molto più drastica rispetto alle prove sfortunate degli anni scorsi. «Per la prima volta – rivendica la ministra della Pa Marianna Madia – abbiamo messo in moto un processo reale di riduzione delle società pubbliche, perché a differenza dei molti tentativi passati abbiamo previsto verifiche e sanzioni». In effetti, a distinguere la riforma dai suoi predecessori sono due caratteristiche: i parametri che individuano le società da dismettere sono in larga parte oggettivi, e non lasciati all’opinione delle singole amministrazioni, e chi non effettuerà dismissioni e fusioni entro il 30 settembre 2018 si vedrà sospendere i diritti di socio e rischierà di dover liquidare in denaro la partecipazione. Il rispetto dei parametri prima e l’attuazione dei piani poi saranno al centro delle verifiche ministeriali.
Lo stesso controllo, però, sarebbe utile anche per le strutture centrali che devono completare l’attuazione della riforma. Fuori dai radar rimangono infatti due provvedimenti cruciali, che devono regolare la gestione degli esuberi delle società e fissare i tetti ai compensi degli amministratori. Il primo decreto, di Palazzo Chigi su proposta di Economia, Funzione pubblica e Lavoro, è stato anche al centro a settembre di un’intesa con gli enti territoriali: entro il 30 novembre, cioè giovedì della prossima settimana, le società dovrebbero scrivere l’elenco degli esuberi, da cui le altre aziende pubbliche dovrebbero pescare per le proprie assunzioni. Ma senza decreto il meccanismo non parte, e non scatta il blocco delle assunzioni libere nelle altre società.
Ancora più lunga è la storia dell’altro decreto fantasma, quello con cui l’Economia dovrebbe indicare i tetti ai compensi degli amministratori articolandoli in cinque fasce a seconda della dimensione della società. Previsto entro il 30 aprile 2016 da un comma di due manovre fa, il decreto è stato imbarcato sulla riforma Madia, ma senza perdere la propria presunta “urgenza”. Via Venti Settembre, secondo la riforma Madia, avrebbe dovuto fissare i nuovi limiti ai compensi entro il 23 novembre 2016. Ma entrambe le scadenze sono passate senza esito, e la questione dei compensi resta imbrigliata in un intrico di norme più o meno in vigore a seconda delle interpretazioni. L’unica cifra certa, per le non quotate, sono i 240mila euro all’anno che rappresentano le colonne d’Ercole di tutti gli stipendi pubblici, dal Quirinale in giù.
gianni.trovati@ilsole24ore.com