La Stampa, 19 novembre 2017
Parla il grande giurista italo-americano Guido Calabresi: «Ci salveranno Paolo e Francesca»
Dopo 85 anni di vita romanzesca, Guido Calabresi è ancora il professore che tutti vorremmo avere. Figlio di Bianca Maria Finzi-Contini, interrompe l’infanzia trascorsa anche nel giardino che ispirò Giorgio Bassani quando sta per compiere sette anni. Dopo l’uccisione dei fratelli Rosselli, cui l’univano amicizia e militanza antifascista, il padre decide che è giunta l’ora di lasciare l’Italia a bordo del transatlantico Rex, senza un soldo. Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginsburg, gli procura una borsa di studio a Yale. La stessa università dove Guido studierà diritto e di cui diventerà professore (il più giovane di sempre) e preside, in una carriera costellata da una sessantina di lauree honoris causa in tutto il mondo.
Tra gli studenti passati da Yale che chiama affettuosamente «my kids», i miei ragazzi, ci sono Hillary e Bill Clinton, che nel 1994 lo nominò giudice di Corte d’appello, tre dei nove giudici in carica della Corte suprema, due governatori, svariati membri del Congresso. Il suo ultimo libro, Il futuro dell’analisi economica del diritto (in corso di traduzione), critica la teoria che lo stesso Calabresi contribuì a fondare all’inizio degli Anni 60. L’analisi economica del diritto rivoluzionò il rapporto tra le due discipline, introducendo valutazioni economiche oggettive nel campo giuridico. Ora Calabresi la corregge, come un padre con un figlio discolo. «L’analisi economica del diritto ha due varianti» spiega. «Una segue il pensiero di Jeremy Bentham, che giudicava irrazionale il mondo se non combaciava con le sue teorie. L’altra segue quello di John Stuart Mill che a volte, in caso di contrasto, dubitava della teoria. Io ho scelto la seconda».
Come mai critica la teoria che ha contribuito a fondare?
«Troppo spesso è diventata strumento di riforme per adeguare il mondo alle teorie».
Su quali temi?
«Per esempio sui cosiddetti beni meritori. Io ho bisogno di un rene, lei è disposto a venderlo, ci accordiamo e siamo soddisfatti. Secondo la teoria economica tradizionale, non c’è ragione oggettiva per vietare la transazione. Io chiedo: se i terzi sono contrari, si può ignorare la loro opinione?».
E io rispondo: ci sono valori non negoziabili che superano le convenienze economiche.
«Se si trova disgustoso dare un valore economico a una cosa che non ha prezzo, come la salute. Se invece la contrarietà è di tipo diverso – monetizzare un rene consente solo ai ricchi di garantirsi un trapianto – la risposta può essere: lo Stato colmi la disuguaglianza con sussidi ai poveri. Come vede, le sfaccettature sono molteplici».
Su quali temi si può replicare questo modo di ragionare?
«Su quelli al centro del dibattito pubblico americano: istruzione, sanità, donazioni politiche».
Su questo la Corte suprema non ha fugato ogni dubbio?
«A mio parere no. La Corte suprema ha stabilito che il primo emendamento protegge il diritto di fare politica con i soldi, come con il proprio tempo o con l’azione diretta. Va bene, ma io noto che siccome i ricchi hanno tanti soldi, la loro voce diventa così forte da oscurare quella dei poveri. È un tipico caso in cui la teoria funziona in apparenza, non nel mondo reale».
Che conclusione trae?
«In un brano del Vangelo, i ricchi donano molte monete nella sinagoga. Poi arriva una vedova che lascia solo due soldini. E Gesù dice ai discepoli: lei, nella sua miseria, ha donato più di tutti gli altri, che si sono privati del superfluo. Se Soros o Koch [grandi finanziatori dei democratici e dei repubblicani, ndr] donano un milione di euro e un operaio ne dona dieci, devono essere trattati nello stesso modo? Che cosa non funziona, la teoria o il mondo reale?».
Qual è la sua risposta?
«La teoria economica guardi ad altre discipline. Per esempio alla psicologia, che spiega cose quantitativamente inspiegabili, come dimostra il Nobel a Richard Thaler, teorico dell’economia comportamentale».
Giuristi e economisti sono stati miopi?
«Io ho più fiducia negli economisti degli stessi economisti, notoriamente pigri. Ma se sbaglio, vuol dire che bisogna emancipare il diritto dal giogo dell’economia e rivolgerlo ad altri saperi: antropologia, psicologia, storia, letteratura. Talvolta il diritto deve riformare l’economia, non viceversa».
Che c’entra la letteratura?
«Nella Divina Commedia Paolo e Francesca si abbandonano alla passione leggendo un libro francese sull’amore tra Lancillotto e Ginevra. Leggere determina comportamenti, checché ne dicano i teorici delle scelte razionali».
Nel dibattito pubblico americano le sue tesi sono minoritarie?
«I sostenitori del mercato hanno capovolto i rapporti di forza e sono egemonici. I liberal contestano i risultati e criticano la teoria, ma non ne hanno una propria, sia in economia sia nel diritto costituzionale. Il dibattito nella Corte suprema lo dimostra: i liberal si muovono sul terreno del pragmatismo, non della teoria».
Questo limite vale anche nel dibattito sulle disuguaglianze?
«Si affronta il problema in modo inadeguato. Non c’è dubbio che le disuguaglianze negli Stati Uniti siano enormi e superiori a quelle europee. Ma è solo un pezzo della questione, una visione statica, perché la mobilità sociale americana è superiore a quella europea. Oggi il 40% degli studenti di legge di Yale sono first generation professionals, primi in famiglia a fare studi superiori. Nel mio seminario, 10 studenti su 17 sono nati all’estero o figli di genitori nati all’estero. La domanda è come replicare quest’apertura ai livelli inferiori. Uno studio dimostra che certe scelte di premiare la meritocrazia hanno reso la mobilità sociale americana più difficile. A tutti noi sembrava un modo per ridurre le disuguaglianze, in realtà le aumentano».
Come sta reagendo il pensiero liberaldemocratico al populismo?
«Il populismo è una furia e ha diverse origini. Le élite, cui appartengo, sottovalutano il loro contributo nell’aver regolarmente cercato di fare riforme che riteniamo buone per le persone che hanno di meno, ma senza farcene carico in termini di costi e oneri. Come i capifamiglia del New England che ai tempi della guerra civile potevano pagare per mandare a combattere un sostituto, mentre perseguivano gli immigrati irlandesi che disertavano una causa che non consideravano propria».
Questa sottovalutazione a cosa porta?
«Chi paga i costi di quelle riforme si arrabbia. Il populismo non si scaglia contro le élite, ma contro i disgraziati che le élite vogliono aiutare. Quindi gli irlandesi bruciavano le case dei neri. E i bianchi disoccupati se la prendono con gli immigrati».
Il presidente Trump ha responsabilità? Cavalca la furia?
«Un giudice non può esprimere opinioni politiche. Per conoscere la mia opinione sul presidente, dovrebbe chiederla a mia moglie».
Qual è dopo molti anni il suo rapporto con l’Italia?
«Ci vengo almeno tre volte l’anno. Partecipo ai convegni del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale di Milano e tengo lezioni all’International University College di Torino, dove vedo applicato il motto che avevo coniato da preside a Yale: excellence with decency and humanity. L’eccellenza a livello internazionale coniugata alla qualità tipicamente italiana delle relazioni umane».
Come è riuscito a conservare, dopo quasi 80 anni, un italiano impeccabile?
«Quando arrivammo a Yale, nel ghetto universitario eravamo gli unici non wasp [bianchi, anglosassoni e protestanti, ndr]. Vivevamo completamente separati, in casa s’è sempre parlato italiano».
Non è che, in fondo, si sente ancora un po’ italiano?
«Un collega giudice, primo cugino di George H. W. Bush, sostiene che certe mie soluzioni nelle camere di consiglio più difficili siano frutto dell’italianità. Un giorno uno studente mi ha chiesto: professore, lei per chi tifa ai Mondiali?».
E lei che cosa ha risposto?
«Per l’Italia, nel calcio. E per gli Usa nel baseball».