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 2017  novembre 20 Lunedì calendario

Semplicemente Rino, il Carmelo Bene della canzone pop

Alcolizzato, drogato, massone, personaggio oscuro e maledetto capace di presagire la sua stessa morte e scriverla in una canzone di dieci anni prima. Ma anche, al tempo stesso, autore di canzoni non sense, leggere, disimpegnate, e insieme buffone da palco, burlone televisivo, giullare. Di Rino Gaetano si è detto e scritto di tutto, per lo più sbagliando. Un ritratto distorto e contraddittorio che ancora provoca rabbia tra i parenti e i suoi amici più stretti, come racconta lo scrittore Matteo Persica in Rino Gaetano. Essenzialmente tu (Odoya editore). Una biografia in cui il cantautore di origini calabrese ci appare finalmente più vicino a ciò che era: un ragazzo spontaneamente anarchico, un autodidatta veramente libero, un giovane uomo felice di scrivere canzoni così come di giocare per ore con i bambini dei suoi amici. Uno che al ristorante non voleva essere mai riconosciuto, che sul palco si portava un barattolo di alici perché facevano bene alla voce e che poco prima di morire aveva prenotato una cappella per sposare la sua ragazza, perché al matrimonio credeva tantissimo.
Il racconto comincia da lontano, quando Rino, da chierichetto, faceva cadere il cero o serviva messa con la tunica a rovescio. E poi dopo, da adolescente, vagava con la sua chitarra a tracolla per Monte Sacro, sapendo che i suoi genitori, di origini umili, mai avrebbero approvato la sua scelta di fare il cantautore. Infatti – la biografia lo racconta nei particolari – i primi anni furono difficilissimi, perché le sue canzoni non erano capite, tanto che del suo primo lp, Ingresso Libero, lui stesso disse ironicamente: “Ci avrei potuto fare i fagioli al fiasco” (eppure c’erano canzoni come Essenzialmente tu, A Khatmandu e I tuoi occhi sono pieni di sale).
Il successo arriva molto più tardi, con Il cielo è sempre più blu, “una canzone che tutti credono allegra invece è molto triste”, spiega Persica. E poi, soprattutto, con Gianna, portata a Sanremo nel 1978. Un palco dove Rino Gaetano sale, con frac e ukulele, cercando di restare autentico. “Credo che Tenco sia morto di noia”, scrisse al tempo. “Da ventotto anni Sanremo è sempre uguale, perché non c’è la buona intenzione di cambiarlo davvero. Ma resta una passerella e così devi trovare un sistema: io ho scelto la strada del paradosso, un po’ alla Carmelo Bene”. Ed è proprio il registro paradossale, satirico (“non dell’ironia”), quello che Gaetano sceglie come sue stile fin dall’inizio e a cui resterà fedele. Parlare di emarginazione, povertà, bisogno di lavoro, ospedali, case, scuola – i suoi temi – “ma senza fare il predicozzo”. Raccontare quello che la gente diceva sugli autobus, i bus, i metrò, “ma senza pensare che la soluzione dei problemi spetti al cantautore”. Usare ritornelli facili, ma per dire, ad esempio, che “esistono ancora gli sfruttati, i malpagati e frustrati” (Mio fratello è figlio unico). Un cantautore popolare? “Sì”, rispondeva Gaetano a chi glielo chiedeva, “se si intende essere vicino alla gente in modo che si possa riconoscere in te come un amico”.