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 2017  novembre 20 Lunedì calendario

Intervista a Massimo Bubola: «Vittorio Savoldelli morì a 24 anni. Da allora è il nostro Milite Ignoto»

“Ucciso sui monti di Trento, dalla mitraglia”. Andrea, che si era perso e non sapeva tornare, morì così: “È la storia di un fante italiano, un ragazzo omosessuale, ma questo allora non lo capì nessuno, per questo la canzone ebbe tanto successo”. Nella storia del veronese-istriano Massimo Bubola – che di quella canzone è coautore insieme a Fabrizio De Andrè – il ricordo della Prima guerra mondiale è da sempre un tatuaggio dell’anima.
Ricopiato in musica prima e nelle in 182 pagine di Ballata senza nome (Frassinelli) adesso: 11 storie, 11 ballate brevi per raccontare una generazione falciata dal fuoco attraverso le voci degli 11 sconosciuti tra cui, nel 1921, fu scelto il Milite ignoto. Nessuno saprà mai l’identità del fante sepolto all’Altare della Patria. Nessuno tranne Bubola: “Si chiamava Vittorio Savoldelli – racconta – Era nato a Clusone, in provincia di Bergamo, il 3 dicembre del 1894. Il 13 marzo 1918 finì sepolto tra le rocce del Monte Pasubio, quando una carica di tritolo austriaca da cinquantamila chili sgretolò un pezzo di montagna sulle trincee italiane. Ovviamente è soltanto il ‘mio’ Milite Ignoto”.
Bubola, da dove viene questa fascinazione?
Ho scritto ascoltando un sentimento in estinzione, quello della riconoscenza e della gratitudine, per la mia gente, per mio nonno, che aveva combattuto sul Piave e per un mio prozio, sepolto sul Monte Grappa. La mia era una famiglia patriarcale, nonno badava ai bambini e ho fatto in tempo ad ascoltare i racconti. Non molti però, faceva fatica, come poi mi disse mio padre. Non è facile ripensare tutta la vita a cumuli di cadaveri alti metri, contro cui la notte bisogna sparare per scacciare le pantegane…
C’è molta passione – e documentazione – nel testo. Dica la verità, quanti libri ha letto?
Non bastano saggistica e memorialistica. Ho letto le carte militari, i bollettini dei comandi, le mappe degli spostamenti delle truppe, le analisi del fronte battaglione per battaglione, i manuali d’armi. In più ho un cugino medico anestesista che mi ha fornito tutti gli elementi per poter descrivere la reazione a uno sparo in fronte, per sapere quanti decimi di secondo di coscienza possono rimanere, quali sono i dolori causati da una ferita da lacerazione al costato e quanto si possa ancora sopravvivere. Fondamentali sono stati gli epistolari, aiutano a creare una mappa dei sentimenti di 100 anni fa. Nelle parole dei soldati ci sono anche momenti di erotismo forte, ma sempre composto e devoto. Una cultura del sacrifico oggi perduta. Noi non potremmo mai entrare in trincea oggi, nemmeno con un intero plotone di carabinieri schierato alle spalle
Maria Bergamàs, la madre di un caduto, alla fine sceglie Savoldelli. Perché?
Salvoldelli è frutto della mia fantasia. Di tutti è il soldato più triste, arrivato al fronte con un pesante bagaglio di tribolazioni e poi, come tutti gli altri, inghiottito da una tragica sorte. Ma quelle che i ragazzi raccontano a Maria, una mater dolorosa, ma anche una madonna dei fulmini, sono tutte storie credibili, il risultato di una ricerca molto lunga fatta anche sul territorio.
La guerra 1915-18 è stata forse l’unico, vero, momento identitario e unitario della storia dell’Italia unita?
Lo fu in trincea, dove gli italiani, che parlavano almeno sette lingue neolatine diverse, impararono a capirsi e a leggere scrivendo a casa in italiano. E lo fu alla fine. Il feretro del Milite Ignoto partì da Aquileia e attraversò Friuli, Veneto, Emilia, Toscana, Umbria e Lazio fino a Roma. Il treno viaggiò a 15 km all’ora, il passaggio fu salutato da 8 milioni di persone. Praticamente 2 abitanti su 3 della popolazione allora residente lungo il percorso. Un numero enorme. Ci fu un grande amore per i morti, un’eccezione in un Paese che predilige l’oblio alla memoria.
Quella della Guerra, però, non fu una buona eredità…
Era impossibile educare per due anni uomini a essere assassini e poi pretendere di farli lavorare alle Poste. Gli Arditi non avrebbero mai potuto essere reinseriti in un tessuto sociale normale.
Lei è un cantautore, non un romanziere, dirà qualcuno..
Io mi occupo di letteratura breve, come del resto lo è la canzone. Si pensa che i poeti non possano suonare, ma chi lo dice forse non ha nemmeno fatto un buon ginnasio: Omero suonava una tartaruga, suonavano Poliziano e Metastasio, la ballata nasce dal sonetto dei poeti provenzali. Solo i poeti nostri non lo fanno più, eccetto Caproni che suonava il violino.
La “letteratura breve” della Prima guerra mondiale è anche un eccezionale patrimonio musicale.
Quello che colpisce è che non esistono canzoni di odio. Sono storie di disagio, di nostalgia, di mancanza della morosa, di grande pietas. I nemici non si odiavano, fu così sul Fronte Occidentale come su quello italiano. I soldati si lanciavano gli alcolici da una trincea all’altra, erano quasi tutti contadini e montanari.
Torniamo ad Andrea. Ma la gente sa che in calce a canzoni famosissime di De Andrè c’è anche la sua firma?
No, in Italia c’è poco la cultura dell’autore. Hanno scritto decine di libri su di lui e nessuno ha mai pensato di farmi una telefonata. Si preferisce incensare il personaggio per non rovinare l’immaginario, ma è un’ingiustizia soprattutto verso Fabrizio. Lui ha sempre avuto una forte predisposizione alla collaborazione: con me, Piovani, De Gregori, Pagani e Fossati. Con De Andrè ho scritto 22 pezzi, quelle di Rimini, dell’album dell’indiano e Don Raffaè, sia musica che testi, fifty fifty come da copyright. Ma avevo poco più di vent’anni e qualche consapevolezza in meno.
Come fu che De Andrè si accorse di lei?
Avevo fatto un disco, lo aveva ascoltato e gli era piaciuto. Una mattina mi svegliò mio padre: “Stanotte alle quattro ha chiamato un pazzo che diceva di essere De Andrè. A quell’ora di solito chiamano solo i carabinieri”. Era davvero lui, l’orario non era strano.
Massimo Bubola, folksinger fedele alla linea. C’è ancora spazio per uno come lei tra indie, rap, elettronica, per tacere dei talent show?
Per come sono fatto non ho alternative, ho bisogno di avere un buon rapporto come me stesso, sarà per l’educazione un po’ asburgica che ho ricevuto. Preferisco tenermi stretta la cultura del perdente, che è poi quella dei protagonisti di Ballata senza nome. I nostri nonni preferivano non dare nell’occhio, “finire sui giornali” non era una bella cosa. Oggi ci si scanna per la visibilità, e questo credo abbia creato grossi danni sociali.