L’Economia, 20 novembre 2017
Parità, il dividendo non riscosso
Passi avanti ne sono stati fatti, «ma molto resta da fare», ha detto la ministra tedesca Katarina Barley concludendo il primo G7 dedicato alle pari opportunità dai «grandi» del mondo che si è svolto a Taormina la settimana scorsa. E, in effetti, su questo tema a livello globale ci si comporta come chi ha una montagna di denaro e lo investe su due strumenti che danno lo stesso rendimento. Solo che di uno ritira la plusvalenza e dell’altro no, la «dimentica». Non esattamente un comportamento comprensibile. Eppure è ciò che succede quando si parla di donne.
La ricerca
Nell’ultima analisi sfornata da McKinsey (Women Matter Report) si dice che le donne «sono uno dei più grandi bacini di forza lavoro non sfruttata»: nel mondo del lavoro vi sono circa 655 milioni di donne in meno rispetto agli uomini. E non perché siano in numero inferiore nel totale della popolazione, visto che sono invece un po’ più della metà. E nemmeno perché non studino, anzi le donne costituiscono oltre il 50% dei laureati, ma solo il 25% di loro occupa posizioni manageriali (ecco l’investimento in istruzione non sfruttato). Questo finisce per far sì che le donne generino il 37% del Pil mondiale anche se sono il 50% della popolazione in età lavorativa. Non tutte le regioni sono uguali. La quota di Pil lordo per macro-aree generata dalle donne è pari a solo al 17% in India, 18% in Medio Oriente e Nord Africa, 24% in Asia meridionale (esclusa l’India) e 38% nell’Europa occidentale. In Nord America e Oceania, Cina, Europa orientale e Asia centrale, la quota è del 40-41%.
McKinsey ribadisce che, se tutti i Paesi, nelle rispettive regioni, dovessero progredire rapidamente verso la parità di genere della forza lavoro, entro il 2025 si potrebbero aggiungere fino a 12mila miliardi di dollari (poco più di 10mila miliardi di euro) alla crescita annuale del Pil, ovvero l’11% del Pil mondiale entro il 2025. Sarebbero ulteriori 2.100 miliardi di dollari (circa 1.800 miliardi euro) per il Pil dell’Europa occidentale entro il 2025, 3.100 miliardi in Nord America e Oceania e 2.500 miliardi (2.100 in euro) in Cina.
Si parla di Pil, dell’indicatore che solitamente si usa per misurare la ricchezza di un Paese, tralasciando tutto il lavoro non calcolato – ma che ha un notevole valore economico – che il mondo femminile svolge «informalmente» per l’intera società: l’educazione dei figli, la cura della casa e della famiglia in senso largo, la creazione e il mantenimento delle relazioni sociali, oltre molto spesso a sostenere anche economicamente la famiglia con lavori però precari e non regolarizzati.
«Un numero maggiore di donne inserite nel mondo del lavoro sarebbe un notevole vantaggio per quei Paesi dove l’invecchiamento della popolazione rappresenta un problema in termini di numero di lavoratori disponibili e quindi potenzialmente per la crescita del Pil», dice l’analisi di McKinsey coordinata tra gli altri da Sandrine Devillard, senior partner. Una maggiore partecipazione femminile aggiungerebbe potenzialmente 240 milioni di lavoratrici a livello globale. La società di consulenza americana conferma, dunque, ancora una volta ciò che da più parti è stato messo in evidenza nel corso degli anni, ma che non trova soluzione.
Guardando all’Italia, le donne costituiscono in media il 33% dei membri dei consigli di amministrazione, ma solo il 9% dei membri dei comitati esecutivi. Tra il 2007 e il 2017, la maggior parte dei Paesi in Europa occidentale ha aumentato la rappresentanza nei Cda con percentuali a due cifre: l’Italia, assieme alla Francia, ha avuto un incremento del 30%, ma il progresso è stato più moderato per i comitati esecutivi (+6% in Italia). Il motivo della disparità sta nelle leggi: per i Cda molti Paesi europei hanno norme che impongono quote di genere, che non esistono per tutte le altre cariche.