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 2017  novembre 20 Lunedì calendario

Finanza, uomini e competenze

Conoscendo e apprezzando Fabrizio Saccomanni sono convinto che avrebbe preferito diventare membro del consiglio, e futuro presidente di Unicredit, in un altro momento. Lontano dalle polemiche e dalle accuse che coinvolgono la Banca d’Italia, nella quale era entrato per concorso nel 1967 e di cui è stato direttore generale dal 2006 fino al 2013 quando è diventato ministro dell’Economia con il governo Letta. Arrivare all’Unicredit non in contemporanea con i lavori di una discussa commissione parlamentare nella quale abbiamo assistito a un deplorevole rimbalzo di responsabilità fra due organi di sorveglianza, la Banca centrale e la Consob. E non nei giorni in cui stentava a spegnersi il clamore suscitato dalla sistematica opera di tentata cattura degli ex vigilanti, funzionari, ispettori, da parte dei vigilati con qualche, per usare un eufemismo, problema. 
L’analisi 
Sia chiaro che nella cooptazione di Saccomanni nel consiglio di Unicredit, che in questo modo migliora la propria governance, non vi è nulla da eccepire. Il mercato ha apprezzato. Tutte le stringenti regole sul cosiddetto fit and proper della Banca centrale europea sono state scrupolosamente osservate. Trascorso più di un anno per poter assumere, da ex ministro, un incarico privato. E passati largamente i due anni, come ex componente del direttorio della Banca centrale, per essere libero di accettare qualsiasi contratto, come prevede il decreto del maggio del 2015 che ha recepito il nuovo quadro normativo europeo. Sulle qualità del candidato alla presidenza di Unicredit, che dalla prossima primavera sostituirà Giuseppe Vita, non vi sono dubbi per levatura tecnica, esperienza internazionale, moralità. Saccomanni, 75 anni, sarebbe stato anche un eccellente governatore della Banca d’Italia. Era il candidato più titolato al momento in cui Mario Draghi, nel 2011, venne promosso alla testa della Bce. Si opposero alla sua nomina il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti (che voleva l’allora direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli). Il compromesso fu poi trovato su Visco, il governatore appena confermato. Saccomanni è stato a lungo in predicato di ricoprire l’incarico di presidente di Intesa, poi ha prevalso Gian Maria Gros-Pietro. 
Il passaggio dal pubblico al privato, anche dagli organi di vigilanza, è ovviamente normale, pur regolato da periodi di cosiddetto cooling off, in tutto il mondo occidentale. Anzi in qualche caso, come nel Regno Unito, la presenza di ex regolatori è prevista dalle stesse regole di governance. L’ex presidente della Bundesbank Axel Weber è oggi al vertice del colosso bancario svizzero Ubs; Jean Lemierre, ex capo della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, è chairman Bnp Paribas. Dalla stessa Bnp proviene l’attuale governatore della Banca di Francia, Francois Villeroy de Galhau. Dobbiamo dire, per onestà intellettuale, che se un banchiere vigilato venisse eletto a capo dei vigilanti in Italia, le polemiche sarebbero fortissime. E solleverebbe un vespaio anche la decisione di un capo di governo di mandare il suo consigliere economico al vertice dell’istituto centrale, come è accaduto per Jens Weidmann, ex collaboratore di Merkel, oggi presidente della Bundesbank. 
La nota 
Eppure, pur fatte tutte queste premesse, c’è qualcosa di stonato, alla luce dell’intera drammatica vicenda bancaria italiana. E non perché l’attuale Unicredit sia anche il prodotto della indigestione di una discreta quantità, anche brillantemente smaltita, di crediti in sofferenza di Capitalia. Il gruppo bancario romano, guidato da Cesare Geronzi, venne incorporato nel 2007 nell’Unicredit allora guidato da Alessandro Profumo. La regia fu tutta della Banca d’Italia, mentre era governatore Mario Draghi. Direttore generale dal 2006 era lo stesso Saccomanni che per la verità non si occupò mai direttamente di vigilanza. Prima del famigerato bail in – da noi però firmato e votato – e dell’avvio dell’Unione bancaria europea con la vigilanza Bce, la situazione era molto diversa. Gli istituti con maggiori problemi venivano, su caldo «suggerimento» della Banca d’Italia, assorbiti dagli attori più robusti. Non falliva alcuna banca, non si licenziava nessuno. In quella logica dirigista e paternalista, per esempio Rinaldo Ossola, che fu direttore generale di Banca d’Italia e ministro del Commercio Estero, andò nel 1980, a fare il presidente del Banco di Napoli nel tentativo di salvarlo. Con lo stesso scopo, anni prima, nel 1965, il capo della vigilanza e vice direttore generale della Banca d’Italia Ciro De Martino assunse la presidenza del Banco di Sicilia. Paolo Biserni andò al Credito Varesino. Mario Sarcinelli approdò a Italease. E l’elenco potrebbe continuare. 
Le porte girevoli sono state in questi anni numerose, tra la Banca d’Italia, la Consob e il sistema finanziario, anche quando non vi erano salvataggi da compiere. Nel consiglio di Mediolanum troviamo, per fare un altro esempio, un altro ex capo della vigilanza Bankitalia, Bruno Bianchi. Dunque non c’è da meravigliarsi che i controllori siano stati e vengano corteggiati, anche se l’attività di vigilanza è difficilmente condizionabile.
Ma le motivazioni che hanno spinto il padre padrone della Popolare di Vicenza Gianni Zonin ad assumere il capo della segreteria particolare, quando governatore della Banca d’Italia era Draghi, non erano molto diverse (una polizza virtuale) da quelle di altri suoi colleghi più titolati e dall’immagine intonsa. Ed è estremamente complesso per un risparmiatore, per un cittadino qualsiasi, già preda di dubbi e con ferite aperte, distinguere tra le porte girevoli imboccate da funzionari e dirigenti – nel rispetto delle regole ma spesso nel giudizio negativo dei colleghi rimasti nell’istituzione – dagli ascensori di cristallo presi dai vertici – ripetiamo nel rispetto scrupoloso delle norme – e nel plauso generale.