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 2017  novembre 20 Lunedì calendario

Ma sono i boss catanesi il nuovo modello per i clan

Qualcuno non si ricorda neanche se è vivo o morto. E i suoi sembrano scomparsi, inghiottiti dalle retate poliziesche. Ma anche se ormai ha quasi ottant’anni Benedetto Santapaola c’è, c’è ancora. E ci sono pure i suoi, che sono ricchi, i più ricchi di tutti. Nascosta, un po’ come lo è stata la ‘ndrangheta quando a Palermo uccidevano Falcone e Borsellino, la mafia di Catania è sempre lì. Geograficamente laterale, mafiosamente capitale.Chiunque vorrà rifondare la Cupola dopo l’uscita di scena di Totò Riina dovrà fare i conti con loro, i “catanesi”.È la razza dei Santapaola che più di altre incarna un “modello” vincente, l’alternativa alla politica dissennata di Corleone. Mentre quelli sparavano e preparavano bombe, “Nitto” e la sua gente facevano soldi a palate. Lo chiameranno forse ancora “Il Cacciatore” o magari anche “Il Licantropo”, ma il vecchio del quartiere San Cristoforo ha costruito un impero dove affari illegali e affari legali si confondono. È un futuro che viene da lontano.
Considerati da sempre i cugini un po’ così, snobbati dall’aristocrazia criminale della Sicilia occidentale, oggi sono più avanti di tutti e si sono già guadagnati una “rispettabilità” molto americana. È la mafia che per prima si è infilata il vestito buono e che ha messo distanza con le “piazze di spaccio” e le “mesate” del racket, che lascia alle sue articolazioni più basse il lavoro sporco infiltrandosi dappertutto nelle attività pulite. Nella loro Catania. A Messina. E anche fuori dai confini nazionali. Soprattutto a Malta, nuova frontiera del riciclaggio nel Mediterraneo.
I picciotti partono da Catania carichi di denaro, si imbarcano sul catamarano a Pozzallo e cento minuti dopo sono già a La Valletta. Poi gli stessi soldi tornano nelle tasche di maltesi incensurati che investono in Sicilia e in Italia. La connection Catania- Malta – isola “felicissima” dove un mese fa è stata uccisa la giornalista Daphne Caruana Galizia, fatta saltare in aria con un attentato tipico di mafia e dove trafficanti somali di uomini ed ex colonnelli di Gheddafi commerciano con le ciurme criminali di ogni luogo – si fonda anche sul gioco d’azzardo e i casinò che ci sono dall’altra parte del mare. Negli ultimi mesi s’indaga pure su triangolazioni petrolifere con il greggio dei pozzi dello Stato Islamico che – via Libia – arriverebbe sino in Italia. Grazie ai “catanesi”. Ma chi sono questi sconosciuti boss che si presentano oggi come la fazione più avanzata ed evoluta di Cosa Nostra? Sono sempre gli stessi, schermati da parenti vicini e lontani – come i Romeo di Messina e i più noti Ercolano di Catania – o da altri personaggi che magari non si chiamano Santapaola ma “sono” Santapaola. Il vecchio Nitto è rinchiuso ad Opera, il figlio più grande Vincenzo detto “ù picciriddu” è pure lui in stato di cattività, il secondogenito Francesco è molto operativo e qualche mese fa – a luglio – seguendo lui i carabinieri del Ros hanno scoperto una “cellula” dei Santapaola sullo Stretto. Era praticamente inabissata, tutti in doppiopetto, tutti incensurati, “pettinati e profumati”, tutti con interessi nella ristorazione e nelle scommesse, con amici fra funzionari del Comune e nei salotti, legami di “fratellanza”. In perfetto Santapaola style.
Ne sa qualcosa l’ex procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, che è catanese e che è stato appena nominato procuratore aggiunto nella sua città. A luglio ha firmato l’inchiesta sugli insospettabili Romeo di Messina e un paio di anni fa invece aveva firmato un libro – “Catania bene” – che descriveva la mafia sotto il vulcano così: «È un pericolosissimo modello di governo criminale che sa essere spietato, ma anche politico e duraturo. È la Cosa Nostra che ha vinto e che è difficile disvelare tutta intera».
È la specificità del crimine a Catania, già conosciuto dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa nei suoi cento giorni siciliani e dal giornalista Pippo Fava. Promiscuità. Cavalieri del lavoro ed editori, la borghesia delle professioni e il malaffare. Una mafia molto “governativa”, una diversità e una modernità che l’ha portata a entrare in contatto con i “turchi” per approvvigionarsi di oppio quando i boss di Palermo si barcamenavano ancora con i contrabbandieri napoletani per le casse di “bionde”, che aveva i canali giusti per procurarsi armi come quei kalashinikov che poi sono serviti a uccidere i capi storici della Cosa nostra dell’altra Sicilia.
Ieri come oggi la mafia di Catania è più aperta, capace di “dialogare” anche con tutte le cosche che ha intorno in città, i “carcagnusi”, “cursoti”, i “cavadduzzu”, stelle mafiose che brillano di luce propria. Meno ortodossa e più flessibile, la mafia catanese è quella più adeguata a lanciare la sfida per avere una Cosa nostra davvero nuova ed efficiente dopo lo sfascio voluto da Totò Riina. Il nuovo mafioso forse è proprio nato qui, ai piedi dell’Etna. Chi è veramente? Con una battuta fulminante ce lo dice uno dei fondatori de “I Siciliani“di Pippo Fava, il giornalista Riccardo Orioles: «È un imprenditore, un imprenditore che spara».