Corriere della Sera, 20 novembre 2017
Gli incantesimi di Manganelli nel labirinto delle lettere
«I l recensore è sempre stato, è, e sarà sempre un demente», afferma perentoriamente Giorgio Manganelli in uno dei capitoli iniziali del Discorso dell’ombra e dello stemma. Come far finta di nulla, iniziando a recensire la ristampa, per Adelphi, di questa sconcertante operetta, uscita da Rizzoli nel 1982? Bisogna subito aggiungere che Manganelli, per tutta la vita, di recensioni ne scrisse tantissime, arricchendo le pagine di settimanali e quotidiani con la qualità eccelsa della sua prosa, il visionario rigore delle sue intuizioni, il suo gusto per le sintesi allegre e feroci. Non era certo quel tipo di scrittore che si illude di conservare le sue cartucce migliori per i libri, concedendo ai giornali fatiche di minor momento, slanci più tiepidi e corrivi. E aveva ragione: perché l’economia della scrittura non è compatibile con la saggia amministrazione del proprio talento, e più si sperpera più si guadagna, come in un perpetuo carnevale.
Quanto alla particolare demenza del recensore, diciamo subito che è in buona, anzi ottima compagnia. «Del lettore e dello scrittore considerati come dementi» è il sottotitolo del Discorso dell’ombra e dello stemma. Nella sua bellissima postfazione, che è un vero corpo a corpo con questo libro arduo e inafferrabile, Salvatore Silvano Nigro ci informa del fatto che il memorabile, provocante sottotitolo era stato concepito inizialmente come titolo. E in effetti, la demenza si accampa nel testo come il principio primo, il supremo criterio distintivo, l’alfa e l’omega di quel misterioso, elusivo, paradossale insieme di fenomeni mentali che definiamo «letteratura».
Già, ma che cos’è la letteratura? Ecco una domanda che oggi non ha certo quel rilievo, quell’urgenza drammatica, quella capacità di sollecitare immaginazioni e pensieri che possedeva nel Novecento. Ispirando libri splendidamente datati come, mettiamo, L’ABC del leggere di Ezra Pound o Lo spazio letterario di Maurice Blanchot. Il Discorso dell’ombra e dello stemma appartiene a questa nobile famiglia estinta. Non mira, ingenuamente, a una definizione né, più furbamente, a una serie di definizioni tra loro compatibili. Semmai, una volta enunciata la fatale domanda sulla letteratura, Manganelli si arrende totalmente alla follia che vi era implicita, rifiuta di governarla, e se costruisce una teoria, lo fa senza ricorrere a un punto di vista esterno, a un tranquillo osservatorio filosofico.
Se la letteratura rappresenta la suprema forma di demenza dell’esistere umano, ebbene l’unica forma credibile di discorso che se ne possa tentare è quello di chi, a sua volta, ne parla – ne straparla – da demente. Mirabile è l’invenzione iniziale del Discorso, tutta imperniata sulla fantasia di un’umanità selvaggia, che ancora non conosce né scrittura né lettura, né scrittori né libri. Mi sembra che Manganelli sbizzarrisca in queste pagine il suo estro parodistico mirando a uno dei più insigni classici della tradizione filosofica italiana, La scienza nuova del Vico. Ebbene, anche immaginando un’umanità primitiva e analfabeta, lo scrittore milanese non riesce a concepirla priva di quel suo essenziale attributo che è la decifrazione del mondo. Come se i fenomeni fossero il risultato, e non il presupposto, dell’atto linguistico (o del mito, del racconto) che li fa esistere.
«Riesco a immaginare un tempo senza auto, senza locomotive, senza bandiere, primi ministri, preti, zoo, valige ventiquattrore, televisione e dischi microsolco, ma non riesco a immaginare un mondo, un tempo, una serie, un rosario di generazioni senza letteratura». Questo è il punto di partenza di quel vertiginoso e a tratti enigmatico tour de force in cui consiste il Discorso. Manovrando tutte le risorse di una formidabile arte retorica, Manganelli conduce la teoria alla temperatura del delirio, erige una mitologia di cartapesta per incendiarla al fuoco del paradosso. Al centro di questo cosmo – metà vulcano metà buco nero – c’è sempre l’uomo, lo schiavo demente delle parole. La preistoria su cui indugia Manganelli è uno schema narrativo e gnoseologico illuminante, perché rivela un’esigenza che anticipa addirittura la cosa di cui non si può fare a meno. Il «toro dipinto sulla pagina inquieta di una caverna» non è ancora la letteratura, ma la sua mancanza che si rende eloquente.
Certo, la letteratura è inutile. Ma è proprio il fatto che potremmo farne a meno a renderla più potente di ogni necessità concreta, a trasformarla in un’allucinazione. «Malattia del mondo, l’uomo vuole l’ulteriore malattia che trova riposo solo nelle parole scritte». È vero che ogni parola, anche se non è scritta, è già una specie di incantesimo, ma l’incantesimo è veramente efficace solo quando la parola è scritta. E con questa precisazione giungiamo nel cuore stesso dell’antropologia di Manganelli. Che se per pura comodità empirica distingue un lettore da uno scrittore e uno scrittore da un libro, è sempre pronto a ricordarci che si tratta di separazioni di ruoli del tutto arbitrarie, di maschere di una sola, innominabile energia. La parola scritta non si limita a rendere il mondo leggibile, a dotarlo di un senso. Non è, insomma, dal punto di vista di Manganelli, un utensile, fosse pure il più raffinato e prezioso degli utensili. Da questo punto di arrivo di molte dottrine estetiche ed antropologiche prende l’avvio una cosmogonia di labirintica bellezza, popolata di innumerevoli dèi e da forze di distruzione e rigenerazione di cui nessun libro può rendere conto se non in quantità infinitesimale e in maniera imperfetta e lacunosa.
Sottraendomi, nel mio ruolo demente di recensore, al flusso narcotizzante della prosa di Manganelli, azzardo una sintesi, non so quanto attendibile: tutto ciò che esiste nel mondo, è un atto di scrittura, e dunque un atto di lettura. Vivere è scrivere, vivere è essere letti. «Avvolto in pagina di pelle, l’uomo scrive se stesso». Scrivendosi, però, produce un altrove, ovvero attraversa lo specchio. Proprio nel punto cruciale del ragionamento, Manganelli si appropria della stupenda, vivificante metafora di Lewis Carroll ibridandola con quella, antichissima e sapienziale, del gioco degli scacchi. Oltre la superfice dello specchio, «il gioco non è veramente il gioco degli scacchi, ma un gioco in cui il giocatore gioca agli scacchi con un procedimento per cui egli viene trasformato dal gioco, è giocato dal gioco». Tutti i libri del passato che vale davvero la pena di ricordare hanno un volto storico e uno intemporale. Così, possiamo dire che il Discorso dell’ombra e dello stemma è un libro che oggi nessuno scriverebbe più, e che molto difficilmente troverà nuovi lettori in gran numero. Con la stessa certezza, mi sento di affermare che la libertà di Manganelli è un’eredità preziosa, che il suo è un insegnamento impagabile, che è necessario continuare a studiarlo e ristamparlo. Non si tratta di storia letteraria, o di recensioni, ma di una forma molto più arcana e irrinunciabile di demenza: quella che ci insegna a essere trasformati dal nostro stesso gioco, giocati dal gioco.