la Repubblica, 20 novembre 2017
Quel genio del male che scelse il terrore e finì per affossare Cosa nostra
Chi é stato, cupo e malmostoso, a diventare il capo carismatico di Cosa nostra? Totò Riina è stato il simbolo di un immaginario, di un marchio della mafia che ha fatto il giro del mondo. Potremmo dire che studiare Riina e il suo rapporto con le mafie è come, per gli storici della guerra, avere a che fare con le analisi di Karl von Clausewitz o Vegezio. Perché Riina cambiò la mafia. Quella che guidava lui e le altre nel mondo. Trasformò una struttura che andava verso un canone borghese nel metodo feroce e violento della provincia.
Da un collaboratore di giustizia sappiamo che leggeva i giornali locali per sapere tutto ciò che succedeva in Sicilia, poi leggeva tre o quattro quotidiani nazionali. Era ossessionato dall’informazione. Maniacale come è stato con la sua carriera di boss, tutta rivolta a centralizzare le decisioni. Il contrario di ciò che voleva far passare ai processi: la scena del silenzio e del povero contadino ignaro era una recita, come l’esibizione della “quinta elementare” (strategia dei mafiosi per sminuirsi davanti al giudice). O come quando diceva che «questa Cosa… Cosa nostra…» l’aveva sentita solo dai giornali e dentro al cinema. Mentre in cella, parlando con altri detenuti, rivendicava le sue condanne a morte.
E così fu per le stragi. Nessun azzardo: Riina sapeva che uccidere Falcone avrebbe scatenato la reazione delle forze dell’ordine e della stampa, sapeva che la strategia delle bombe avrebbe posto Cosa nostra sotto i riflettori di tutto il mondo. Ma lo fece ugualmente, scartando l’ipotesi di eliminare figure di culto di mondi come lo spettacolo o la politica. No, non lui. Lui doveva arrivare al cuore del problema. E scelse Falcone. Come fra Santoro e Costanzo, scelse Costanzo, per lo spazio dato in tv al metodo Falcone, con un attacco plateale e diretto: aveva bruciato una maglietta con la scritta Mafia made in Italy riferendosi proprio a lui, il capo dei Corleonesi. Una beffa che, lasciata correre, avrebbe minato il rispetto di Riina. E questo non si poteva consentire. Non per un uomo che si tiene dentro l’orrore di un bambino sciolto nell’acido: per lui la responsabilità di quella morte era imputabile solo al padre del bambino, un affiliato che, pentendosi, aveva tradito. Quindi la sua logica era la logica di un uomo che ha creduto in questo meccanismo di potere fino in fondo.
La sua vita era maniacale anche in famiglia: i figli raccontano di un padre presente, che tornava sempre a casa per cena. La sua è stata una vita disciplinata, senza vizi, votata poi al carcere a vita. Sarebbe bastata una sola parola per ottenere benefici, ma il suo silenzio valeva di più. È il simbolo che gli ha permesso di preservare l’unica cosa che gli era rimasta: l’immagine di potente. Basti pensare che Riina è stato il capo operativo di Cosa Nostra per 11 anni, ma in realtà ne ha mantenuto lo scettro simbolico sino alla morte, quindi per 35 anni. In nessuna organizzazione criminale del mondo si è avuto un capo così a lungo al vertice. Un vertice che lui ha voluto tenere e che gli altri gli hanno volentieri lasciato, primo fra tutti Matteo Messina Denaro, ben felice di non avere l’alloro dei Cesari sul capo per avere maggiori spazi di manovra.
L’altra stranezza della sua figura è che, dentro Cosa nostra, c’erano persone ben più capaci e ragionevoli di Totò Riina, ma non hanno raggiunto il suo ruolo. Perché questo ruolo Riina l’ha ottenuto con il sangue. Per lui il sangue è stato il capitale più prezioso. Riina riconosce alla ferocia un carattere mediatico che intende cavalcare. In pratica, teorizza e realizza il terrorismo mafioso. È questo che lo porterà ad essere odiatissimo dalle altre mafie, che hanno sempre considerato l’eco mediatico un problema: Riina ha reso visibile ciò che le organizzazioni criminali italiane erano sempre riuscite a tenere invisibile, e sempre per colpa di Riina sono state approvate leggi antimafia che hanno messo a dura prova gli affari e le strutture delle cosche. Fino a poter dire che Riina è il mafioso più odiato dai mafiosi. Quando negli anni ‘80 vennero confiscate delle proprietà a suo fratello Gaetano, per vendetta Totò Riina fece ammazzare a fucilate Alberto Giacomelli, un magistrato in pensione: sapeva benissimo che dopo l’omicidio sarebbero arrivati a lui, ma questo non gli importava, perché Riina non si è mai posto il problema delle responsabilità.
È così che Rina ha portato a Cosa nostra un monopolio dell’immaginario del potere. Ma ecco che nel momento più alto questo meccanismo, che prima di allora aveva sempre funzionato, s’inceppa. Con l’eliminazione di Falcone la Cosa Nostra corleonese perde consenso. Riina era convinto che, come era successo con Chinnici e altre decine di uomini di Stato che non avevano creato nessun vero impatto sulla società se non qualche fiaccolata locale, anche l’omicidio di Falcone avrebbe lasciato Cosa Nostra illesa. Invece fu proprio allora che Riina cominciò a perdere consenso. Da quel momento ci fu un’emorragia di pentiti e, sull’onda delle stragi volute proprio da Riina, vennero varate leggi specifiche contro le organizzazioni mafiose (dal 41 bis al sequestro dei beni).
Fu in questo momento che si ebbe la percezione formale del contrasto tra la Cosa nostra corleonese e le altre mafie, come i Nuvoletta di Marano di Napoli o i Piromalli di Gioia Tauro. E che Riina creò l’anti-Stato mafioso, un contropotere che usava il sangue come strumento di negoziazione. Riina è stato come un hub in cui far rientrare tutto, ogni tipo di trattativa, ogni tipo di strage. A lui stesso faceva comodo questo: più lo Stato si accaniva su di lui, più lo rendeva potente; più lo citavano i giornali, più si rendeva difficile l’ascesa di altri boss.
La storia di Riina non è la storia di un pazzo, dunque, non è la storia di un mero criminale sanguinario, è la storia di un genio del male che scegliendo la strada dell’intransigenza, del rigido moralismo, la strada militare ha radicalizzato il ruolo delle mafie permettendo allo Stato di costruirsi degli anticorpi. Con le sue bombe, Riina ha costretto lo Stato a riconoscere l’esistenza delle mafie, a dichiarare la presenza di un pericolo assoluto e la necessità di entrare in emergenza. La ’ndrangheta e la camorra studieranno Riina per evitare di fare quello che lui ha fatto.
Ecco che così facendo, Riina ha dato un’aura di invincibilità a Cosa nostra ma, al tempo stesso, l’ha resa aggredibile. L’ha spiegato Attilio Bolzoni: Riina trasforma Cosa Nostra in Cosa Sua giustificando tutto in nome del rigore e del bene dell’organizzazione. Il risultato finale di Riina fu che nessuno ha più temuto Cosa nostra come nel momento in cui è stata governata dai Corleonesi e questo terrore ha protetto molti affari e pezzi della politica son stati ben felici di allearsi.
Ma il prezzo di tutto questo? L’aver puntato la luce mediatica mondiale sulla Sicilia. Pensando al dibattito di oggi sull’esistenza o meno di una mafia a Ostia, a Roma o comunque fuori dal Mezzogiorno, è utile ricordare che prima di Riina il quesito era se esistesse una mafia in Italia o se si trattasse solo di bande e gruppi locali.
Il reato di associazione mafiosa è stato introdotto solo nel 1982 con un ritardo enorme rispetto alla realtà quotidiana (basti pensare che l’esistenza della camorra è attestata già nella prima metà del Settecento) e per fare in modo che l’articolo del codice penale citasse tra le mafie anche la ‘ndrangheta si è dovuto aspettare fino al 2010 (eppure i Carabinieri già nel 1923 nei loro documenti ne tracciavano l’esistenza).
Riina è morto al 41 bis, è morto da capo. La sua mafia è stata sconfitta, ma tutte le altre che lo hanno subìto, ne godono il vaccino. L’assoluta scomparsa nel dibattito politico elettorale non solo del tema mafie ma della competenza sulle mafie rende la morte di Riina amara, la fine di una vecchia mafia e le nuove sempre più potenti e sempre più in ombra.